Roma, 3 nov – Ennesimo colpo di scena nel caso giudiziario che riguarda Filippo Turetta, il ventitreenne padovano condannato all’ergastolo per l’omicidio dell’ex fidanzata Giulia Cecchettin, ormai due anni fa. Nonostante il reo confesso, per mezzo di una lettera inviata alla Corte d’Assise, aveva di fatto accettato la condanna dell’ergastolo, la Procura generale di Venezia ha deciso ugualmente di ricorrere in Appello.
Turetta rinuncia a ricorrere in Appello
Spieghiamo per la giustizia forcaiola e per quelli che celebrano i processi in tivvù, magari sull’onda delle emozioni che vorrebbero pure fossero legge, che “accettare la condanna dell’ergastolo” non significa che la decisione spetti al Turetta, ma che lo stesso ha deciso di rinunciare ad appellarsi contro una sentenza, seppur di primo grado, quindi non definitiva, perché gli sta bene. Inoltre, sempre per sua precisa volontà, egli ha rifiutato anche tutte le attenuanti del caso. Al Pm, però, che per mestiere fa l’accusa, la decisione dell’imputato colpevole non sta bene e, allora, decide di ricorrere ugualmente in Appello. Con o senza appello, per Turetta che, ribadiamo, ha già accettato di scontare il carcere a vita, la pena non cambierebbe di nulla.
Sicuramente il pubblico ministero saprà che in Italia non esistono i lavori forzati o la pena di morte, allora è lecito domandarsi per quale ragione la pubblica accusa chieda qualcosa che nulla cambierebbe in termini punitivi né rieducativi.
L’accettazione da parte di Turetta della decisione di rimanere in carcere a vita è, forse, il primo atto di una possibile (si spera) normalità dell’individuo, seppur sia una decisione difficile da accettare per chiunque. Egli che è stato lo stereotipo dell’uomo rieducato, tutto lacrime e orsacchiotti. Inesperto a pugnalare mortalmente la donna senza la quale non poteva vivere. In questo senso sono da intendere le parole dei giudici che hanno stabilito, dopo l’esame autoptico, che Giulia è morta dopo le primissime coltellate e, quindi, cinque, cinquanta o settantacinque fendenti non avrebbero sicuramente cambiato la sorte della ragazza che non ha sofferto fino a quando la mano assassina del fidanzato si sia fermata perché Turetta, appunto, stava accanendosi su un corpo già privo di vita. Essendo senza vita, Giulia non ha sofferto fino alla fine, ma proprio “solo” fino a quando Turetta le ha tolto la vita.
Al di là dei tecnicismi, però, preme sapere per quale motivo la Procura generale lagunare tiene particolarmente a ricorrere in Appello per vedere riconosciute le aggravanti della crudeltà e dello stalking, non riconosciute in primo grado di giudizio. Stalking che, pare, cadrebbe pressoché subito perché avrebbe dovuto denunciarlo la diretta interessata, cosa che, purtroppo, non sarà più possibile. Allora ci domandiamo: sarà più crudele un uomo che ammazza la propria donna o un uomo che ammazza la propria donna con (inutili) settantacinque coltellate?
Una mediaticità del Pm ci sentiamo di escluderla. Allora si potrebbe aver delegato anche questa volta alla magistratura – che non è la giustizia – il triste compito di colmare un vuoto culturale, un accanimento ideale e ideologico compensabile in altri ambiti, in nome di quella parità sessuale che vede la vita delle donne, a parità di pena per la soppressione di una persona, valere molto di più di quella dell’uomo.
Le ingerenze della magistratura e quella società che crea mostri
A nulla serverebbe aggrapparsi anche alla pezza evergreen del sempiterno patriarcato perché Turetta nel carcere dove sta scontando la pena è stato puntualmente “battezzato” a suon di pugni perché questo prevedono le leggi del carcere per chi ha esercitato la propria forza su un essere più debole. Un ambiente prettamente maschile che rifiuta la violenza contro le donne e contro ogni soggetto debole. I cosiddetti femminicidi, come anche il diffondersi delle violenze sessuali, non sono un aspetto che abbiamo ereditato dal passato, dalla tradizione, ma, al contrario, sono una creazione della società consumistica e edonistica che crea uomini deboli e viziosi, persino malati, illusi di poter ottenere ogni cosa, essere umani compresi. Sembra essere la fotografia di Turetta, ma questi, purtroppo, ha innumerevoli fratelli i cui genitori sono sempre e solo quei progressisti ultramoderni che hanno orgogliosamente plasmato un uomo devirilizzato, effeminato, incapace di combattere e di soffrire, di vincere e di perdere, debole e senza alcuna capacità di reagire e di essere artefice del proprio destino e che oggi chiedono, a loro volta, alle procure di punire, di correggere, di condannare.
Proprio loro, infatti, negli anni hanno trovato nelle procure il loro rifugio sicuro, un fedele alleato, una sorta di mamma-campana e papà-spazza-pericoli, dopo che hanno smesso di fare politica, dopo che hanno rinunciato alla lotta sociale, dopo che hanno abbandonato persino quella di classe e per anni hanno arruolato una certa magistratura golpista per arrivare là dove arrancavano. È quella magistratura che ormai vuol fare politica perché significa esercitare egemonicamente un potere, significa imporre il proprio punto di vista colorato sulle cose, su ogni cosa – ne è un esempio assolutamente diverso, ma perfettamente calzante l’ingerenza dei togati circa la costruzione del Ponte sullo stretto di Messina – che oggi non si accontenta di punire un assassino, anzi un femminicida per dirla come loro, che si fa andare bene di passare il resto della propria vita dietro le sbarre, ma vuole infierire, vuol fare di più, vuole condannare oltre il massimo, vuole incrudelire pure se non serve ad altro. Vuole punire, anziché rieducare. E probabilmente non vuole accettare che Turetta è una loro creazione e che i primi da punire e rieducare sarebbero proprio i suoi plasmatori. Chissà se in quel caso varrebbe l’appello alla prezzemolina e prezzolata Costituzione più bella del mondo.
Tony Fabrizio