Firenze, 3 mar – Nei mesi scorsi il Ministero degli Affari Regionali aveva commissionato alla Società Geografica Italiana uno studio approfondito sulla proposta, ormai sostenuta all’unanimità dalle principali forze politiche, di abolire le province. Dopo parecchi mesi di lavoro, ecco i risultati della ricerca: inutile abolire un’ente come quello provinciale, che se fatto funzionare non può che garantire servizi più efficienti. Aboliamo piuttosto le costose, parassitarie e caotiche regioni, che costano allo Stato cifre ben più esose e si frappongono, sul piano legislativo, tra il governo centrale e il territorio.
In sostanza lo studio rileva quanto segue: innanzitutto le province sono il tessuto sul quale è organizzato lo stato moderno. In alcuni paesi si è scelto di aumentarle di numero, in modo da essere più vicine al cittadino. In altri si è fatta la scelta opposta, per evitare gli sprechi. Ma nessun paese europeo ha deciso di abolirle. Perchè, a conti fatti, se sono messe in condizioni di funzionare le province funzionano eccome. Costano meno delle regioni e non si sovrappongono allo Stato centrale. Basta eliminare quel coacervo di enti intermedi (Unione dei Comuni, ATO, Distretti e quant’altro l’iperburocratizzazione ha prodotto) e far tornare le Province a quello che erano: organi amministrativi legati al territorio e organizzati secondo il principio dell’efficienza tecnica.
Che dire invece delle regioni? La SGI non usa mezzi termini, e le definisce “gusci vuoti”. Strutture artificiali, imposte a posteriori da uno Stato in grave crisi di identità, cui il governo centrale ha progressivamente demandato quasi tutta l’attività legislativa. Uno Stato dentro lo Stato, che legifera, gestisce i proventi della tassazione (come previsto dal federalismo fiscale), supporta o boicotta le direttive che provengono da Roma. Spendendo cifre da capogiro nel mantenimento di una macchina burocratica che semplicemente non ha senso di esistere. Giusto per dare un’idea, le regioni costano 182 miliardi di euro l’anno, contro gli 11 delle province.
Ed ecco la soluzione prospettata dagli autori della ricerca: riorganizzare il territorio in 36 macro – province, legate alla vocazione territoriale, economica e geografica delle comunità. Esempio pratico: che senso ha dividere due territorio affini come il Polesine e il circondario di Ferrara solo perchè il mezzo scorre il Po? Oppure considerare Piacenza emiliana se da decenni l’attrazione più forte è quella di Milano? E allo stesso tempo ritenere Cremona lombarda se la città gravita verso sud, sull’asse padano? Un approccio radicalmente diverso rispetto a quello adottato dai vari governi, Berlusconi compreso, nella trattazione del problema. Tutti gli esecutivi, infatti, si sono fino ad ora limitati a stabilire l’estensione massima e la popolazione minima necessaria alla costituzione di una provincia. Ed ha più riprese hanno diminuito la prima ed aumentato la seconda con la sola intenzione di abolirne quante più possibile.
“La politica si lascia fuorviare dalle convenienze di parte” commenta Tullio D’Aponte, professore di Geopolitica Economica all’Università Federico II di Napoli e co – autore dello studio. “Si può non essere d’accordo coi parametri adottati, ma è indubbio che ci sia una visione organica della questione”. Gli fa eco Piergiorgio Landini, docente di Geografia Economica a Pescara: “Il problema è che non si è mai adeguata la maglia amministrativa a quella economica e territoriale del Paese. Nel corso dei decenni sono avvenuti cambiamenti enormi: alcune zone sono emerse, altre sono del tutto depresse. E invece ancora noi siamo fermi all’Unità, quando fu effettuato il primo centimento. O al massimo al Fascismo”.
Francesco Benedetti