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Caro Jake, a Sanremo c’è di tutto. Tranne il fascismo

by La Redazione
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Roma, 4 feb – Fascismo, fascimo ovunque. “Riguardo a questi fascisti, li vede spesso? Sono nella stanza qui con noi adesso?” per dirla con un fortunato meme che periodicamente torna a fare il giro dei social. Qualcuno ha visto da qualche parte quello postale, ad altri è risultata indigesta la versione culinaria. Con M – Il figlio del secolo poi in molti hanno potuto immaginarne una versione, per così dire, fantasy. Tipo raccolta delle figurine: ce l’ho, ce l’ho, questo manca. Anzi no, perché il rapper Jake La Furia, intervistato dai tipi di Rolling Stone e parlando di Sanremo, si è inventato il fascismo musicale. Ma andiamo con ordine.

L’intervista a Rolling Stone

Al secolo Francesco Vigorelli, la storica voce dei Club Dogo – gruppo che, va detto, non ha bisogno di presentazioni – presenta il suo ultimo lavoro da solista. L’album si chiama Fame, pseudonimo nel periodo graffitaro (inizi anni ‘90). Così Jake tra il lancio del prodotto, chiacchiere sparse su rap, televisione e sulla personale coscienza politica (“in manifestazione ci andavo più per fumare i cilum, come tutti”), arriva al discorso Sanremo.

All’artista che canta in rima la Milano di Sala – e pur riconoscendo la presenza di “una bomba sociale pronta a esplodere” conferma di fareil tifo per i maranza”- il Festival proprio non piace. “Non intendo andarci, ho rifiutato come ospite. Non mi interessa”. Il motivo – testuali parole dell’intervista – è presto detto: “Ho visto una delle prime conferenza stampa di Carlo Conti, in cui erano tutti preoccupati dei rapper a Sanremo. E lui rispondeva che sì, verranno un sacco di rapper, ma ha guardato i contenuti e saranno tutti positivi. Cioè tu vuoi i rapper, ma gli vuoi anche dire cosa devono cantare? Questo è proprio il fascismo totale della musica, per me se ne possono andare affanculo. 
Io vengo a Sanremo e dico quel cazzo che voglio, sennò chiama tuo cugino e fagli fare il pezzo che vuoi tu”.

Jake la Furia attacca il Festival di Sanremo

Che barba che noia, che noia che barba. Ora, possiamo pure provare a comprendere il punto di vista del rapper. Ribelle comunque organico al sistema, critica questa forma di censura alla quale i suoi colleghi sarebbero sottoposti. Il tutto però risponde a coordinate ben precise, ovvero quelle che portano il nome del politicamente corretto. Né più, né meno.

Perché a Sanremo c’è stato veramente di tutto. Ma nulla di nuovo, solo perfomance che al massimo hanno indignato la casalinga di Voghera. C’è una kermesse stantia, mediaticamente (almeno) doppiata dai talent. Ci sono state secchiate di propaganda progressista e artisti che hanno lanciato provocazioni ormai trite e ritrite. Sbadigli. Come se la musica fosse passata in secondo piano: alzi la mani chi si ricorda così, al volo, il titolo di una canzone delle ultime edizioni. Nessuno probabilmente, ma tutti rammenteranno il limone tra Fedez e Rosa Chemical. O i travestimenti di Achille Lauro. E gira ancora sui social – ovviamente memizzata – la foto della Ferragni e del suo “pensati libera”.

L’arte, il fascismo e i sogni che non fanno dormire

Un Sanremo simile alla ridicolizzazione dei salotti milanesi – tra una Sarfatti ninfomane e un Marinetti in stato confusionale – immaginati e contraffatti da Wright in M – Il figlio del secolo? Sì, più o meno. Se dobbiamo parlare di arte e fascismo – intesi come reale esperienza storica – facciamolo allora con le parole di Claudio Siniscalchi: “il fascismo, a differenza delle coeve esperienze totalitarie, non impose un’arte di Stato. In Unione Sovietica, a partire dal 1934, il «realismo socialista» divenne obbligatorio. E la Germania nazionalsocialista nel 1937 decretò, con la definitiva condanna dell’«arte degenerata», l’estromissione di ogni spinta modernista, in favore dell’estetica neoclassica e rurale. L’arte fascista, in tutti i segmenti, non pose limiti all’espressione di stili differenti. Razionalisti e futuristi rifondati. Strapaese e stracittà. Selvaggi e novecentisti”. 

Disse la stessa Margherita Sarfatti: “lungi da me l’idea di incoraggiare qualche cosa che possa assomigliare all’arte di Stato. L’arte rientra nella sfera dell’individuo. Lo Stato ha un solo dovere: quello di non sabotarla, di dar condizione umane agli artisti”. Un qualcosa comunque di vivo, attivo, fecondo. Sogni che non fanno dormire, se dovessimo prendere in prestito il testo di una fortunata canzone di Jake la Furia e dei suoi Club Dogo. Tutto il contrario di quello che oggi rappresenta Sanremo.

Cesare Ordelaffi

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