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Cry Macho: così Clint ci ricorda come essere uomini in un universo di fighette

by Carlomanno Adinolfi
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Ci sono quelli che contro il «maschilismo tossico» vanno a scuola in gonna. E poi c’è Clint Eastwood. Cry Macho, ultimo film diretto e interpretato dal 91enne cowboy dagli occhi di ghiaccio, è ancora una volta – come tutti i suoi precedenti – sia una storia esistenziale, sia un riesaminarsi con nostalgia, ma anche con maturata consapevolezza, sia – soprattutto – una presa di posizione valoriale di fronte al mondo che avanza. Senza fare prigionieri.

Questo articolo è stato pubblicato sul Primato Nazionale di gennaio 2022

Cry Macho, un bisogno ancestrale di libertà

Quasi tutti si soffermeranno sulla frase detta dal protagonista – Mike Milo, cowboy ex campione e stella dei rodei, ormai anziano e decaduto – che cerca di spiegare al giovane Rafo che «essere macho è sopravvalutato». Ma il senso del film è molto più profondo. Ancora una volta Clint ambienta il suo film al confine, tra due mondi in contrasto, al limite della cosiddetta «America profonda»: quella che fa da contraltare alle grandi metropoli del cinema, della finanza e del business, ma non per questo meno autenticamente americana. Il film è pervaso da un’aria di «revisionismo» della mitologia western, che poi è l’unica mitologia fondante degli Usa insieme a quella messianico-puritana; ma non è un revisionismo volto a criticarla, bensì a ripensarla attuale.

L’addentrarsi di Mike Milo nel deserto messicano e nelle sue città fuori dal tempo è in realtà uno spingersi nella terra selvaggia, un bisogno ancestrale di libertà e conquista tipico dell’epopea dei cowboy. È anche un modo di riappropriarsi della natura, non certo declinato in salsa ambientalista, bensì pervaso dal bisogno di ridare un senso al selvatico incontrastato e riordinare un caos senza freni. Che poi è esattamente il mestiere di Mike, domatore di cavalli selvaggi che in qualche modo sembra «parlare» agli animali. A tutti, diventando quasi un veterinario-sciamano agli occhi degli indigeni. E c’è, ovviamente, anche il mito del «ritorno al ranch», che in questo caso simboleggia il meritato riposo dopo una vita vissuta al limite, nel momento in cui si decide di trovare la quiete, ormai troppo vecchi per essere «macho».

Leggi anche: Clint Eastwood, il regista più odiato dalle “fighette” di Hollywood

Il gallo da combattimento

Ma ripensare la figura del macho non presenta affatto esiti scontati, come potrebbe sembrare. È il 90enne Clint che riconsidera il Clint giovane con una nuova saggezza e consapevolezza data dall’anzianità e dall’esperienza, senza mai rinnegare la virilità o la necessità giovanile di affermarsi. È il percorso che conta. A novant’anni non puoi essere «macho», saresti ridicolo. Ma ha senso essere saggi e ripensarsi solo se lo sei stato, altrimenti non sei nulla. E questa complementarità è simboleggiata dal rapporto tra Mike e Macho, il gallo da combattimento che dà il titolo al film e che in qualche modo funge da totem del personaggio. Il gallo che rappresenta l’ideale del giovane Rafo, che sogna di diventare un duro. Il gallo che insegna che solo combattendo si può avere la libertà, e che proprio attraverso il combattimento e grazie al suo essere «macho» salva Mike e Rafo. E che poi finisce proprio a Mike, andando a ricostruire quella unità «totemica» tra il macho combattente e il saggio che riguarda alla sua gioventù da duro con autoironia e nostalgica soddisfazione.

Se vogliamo, il film può essere visto come un…

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