Roma, 9 ott – Morir por la patria es vivir. Morire per la patria è vivere, recita così un passo – probabilmente il più significativo – della Bayamesa, l’ottocentesco inno cubano. Poco meno di un secolo dopo la “guerra dei dieci anni” gli stessi riferimenti, quelli alla morte e alla terra dei padri, torneranno ad incendiare gli animi dell’isola caraibica. Patria o muerte: Fidel Castro e la rivoluzione. Ma, soprattutto, Ernesto Che Guevara.
Filosofo e guerrigliero, politico e scrittore, padre e uomo d’avventura. Catturato dall’esercito boliviano per conto della Cia, giustiziato (9 ottobre 1967) da un sergente estratto a sorte, quella del medico argentino continua – anche a 55 anni e migliaia di chilometri di distanza – ad essere figura ancora molto dibattuta. A sinistra come a “destra”. Le virgolette, in questo caso, sono d’obbligo.
Cultura e deculturazione
Fughiamo subito il campo da ogni dubbio: non siamo alla ricerca di indebite appropriazioni, né di improbabili sintesi rossobrune. Il Che, semplicemente, era comunista. E rimane tale anche se al giorno d’oggi parte del suo pensiero può sembrare più affine all’area politica totalmente opposta a quella dei suoi eredi.
Dal canto nostro sappiamo che, onde evitare di regredire su posizioni uguali e contrarie all’odiosa (de)cultura della cancellazione, gli avvenimenti nonché i personaggi storici vanno almeno contestualizzati. Come ci insegna Sergio Pessot – giovane novantenne che ha vissuto in prima persona l’America Latina del secondo dopoguerra – il socialismo d’oltre Atlantico è stato un fenomeno differente da quello italiano. E, giocoforza, dalla sua meccanica versione russa.
Che Guevara “oltre il comunismo”?
Il rosso sbiadito di una sinistra in tinta con il capitalismo arcobaleno lo ha completamente dimenticato. Il Comandante – ideologicamente e non solo – si batteva infatti per la difesa dei popoli sovrani. Quindi contro i tentacoli apolidi dell’imperialismo – che, ci teniamo a ribadirlo, è cosa diversa dalla concezione imperiale.
Nel suo ultimo libro Figlio del sole (Altaforte Edizioni) è proprio Pessot a raccontare un personale ma significativo aneddoto. Ancora studente in medicina, il rivoluzionario sudamericano viene sollecitato dallo stesso vicino di stanza sull’origine dell’opuscolo che stava leggendo. Un estratto in spagnolo del Manifesto di Verona e della Carta del Lavoro. Documenti che secondo Guevara “andavano oltre il comunismo e rappresentavano l’innesto per la realizzazione delle sue aspirazioni e la sua ragione di lotta”.
Il comunista in camicia nera
Non esiste il bene supremo né il male assoluto. Esistono gli uomini, esiste la loro volontà. Al di là di quanto vorrebbe farci credere una certa vulgata, la storia infatti non è solo bianca o nera. Anzi, per (provare a) capirla dobbiamo fare i conti con innumerevoli sfumature. L’Italia in camicia nera fu prima in Europa a riconoscere ufficialmente l’Unione Sovietica. Nicola Bombacci, fondatore del Partito Comunista e uomo di fiducia dell’Urss nel nostro Paese, fu figura di spicco durante i seicento giorni di Salò. E si poteva permettere di arringare le folle appellandosi ai “compagni”. A Dongo, nelle ultime tragiche ore, sarà insieme al conterraneo Mussolini. Così non fu, ad esempio, per tante figure di spicco del ventennio.
A differenza del romagnolo di Civitella, Ernesto Che Guevara quel passo non lo fece mai. E non solo per ovvi motivi temporali e geografici. Il suo modo d’intendere il comunismo può comunque affascinare. A patto, come già spiegato diverso tempo fa su queste pagine da Carlomanno Adinolfi, di non perdere le coordinate e rimanere orientati sul nostro centro.
Marco Battistini