Se c’è un’eredità da cogliere nelle misure straordinarie di politica economica varate per contrastare gli effetti dei confinamenti, è che la «virtuosità» nella gestione dei conti pubblici non sembra essere, alla fine dei conti, così tanto virtuosa. Anzi: l’adesione incondizionata ai dogmi comunitari si traduce in una situazione di latente affanno, pronta ad esplodere quando un evento al di fuori del nostro controllo – prima la pandemia, oggi la guerra – si presenta alla porta. Detta in altre parole: a che servono regole già di per sé assurde, se nei momenti di difficoltà si apre la corsa a sospenderle?
Questo articolo è stato pubblicato sul Primato Nazionale di maggio 2022
Un fallimento annunciato
Autunno 2018, trattative tra governo e Commissione Ue. Stando ad alcuni osservatori, l’Italia sembra sull’orlo del default. Tutto per uno zero virgola di distanza sul calcolo del deficit per la finanziaria in via di definizione in quel periodo. Come se una manciata di miliardi potessero fare la differenza: gli oltre 100 di scostamento di bilancio del 2020 – e poco meno della metà l’anno successivo – sono lì a dimostrare più o meno l’esatto contrario. Riportandoci alla cruda realtà: è stata, tra le altre cose, la mancanza di un’adeguata spesa pubblica a trascinarci nell’abisso (anche sanitario), e sarà solo un’oculata dose, sempre di spesa pubblica, a trascinarci fuori dalle secche.
Una questione di spesa pubblica
Il primo elemento dell’equazione appena accennata è esito proprio della «virtuosità» di cui si diceva. Da quasi trent’anni siamo in avanzo primario: al netto della componente interessi sul debito pubblico, lo Stato spende cioè meno di quanto incassa. Risultato conseguito, giusto per fare un esempio, anche tagliando con l’accetta sulla sanità, con una spesa pro capite che – come si legge nel rapporto dell’Ufficio parlamentare di bilancio – tra 2010 e 2018 è calata del 10%. Poteva essere l’occasione per ripensare la dotazione di ospedali, personale e presidi territoriali: niente da fare, la Nadef 2021 mette nero su bianco che il comparto dovrà rinunciare, da qui al 2023, a ulteriori 6 miliardi.
Ecco a cosa sono serviti i «compiti a casa» di cui siamo stati ligi esecutori: a indebolire un intero sistema di Stato sociale, con evidenti conseguenze sul lato economico. Pensiamo alle infrastrutture: le strade statali e provinciali diventano dei colabrodo non perché gli amministratori locali sono incapaci di gestirle, ma più banalmente perché – come ci spiega la Fondazione Filippo Caracciolo – a questo capitolo mancano più di 5 miliardi ogni anno. Hai voglia con i fondi del Next generation Eu – i quali sono e rimangono soldi nostri che l’Ue ci consente di spendere sotto condizioni-capestro – ad incentivare l’uso di automobili elettriche se poi, per viaggiare sulla rete, devono prodursi in virtuosismi per evitare le voragini.
Cornuti e mazziati
Si scrive Patto di stabilità, si legge austerità, e si traduce in carenza di personale, investimenti pressoché azzerati, manutenzioni ridotte al lumicino. Tutto per conseguire i tagli di spesa – dal 2010 al 2019 ridotta in valore assoluto del 7% – necessari ad aderire ai precetti di Bruxelles. Sacrificando, in ultimo, qualsiasi prospettiva di crescita. Perché la spesa pubblica è, aritmetica alla mano, componente positiva del Pil, con un effetto moltiplicatore che è tanto più elevato quanto più il…