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Egitto, inaugurato il nuovo Canale di Suez

by La Redazione
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al Sisi Canale di SuezIl Cairo, 7 ago – La recente inaugurazione del nuovo canale di Suez in Egitto non rappresenta solo un oggettivo avvenimento storico, ed un probabile rimescolamento geopolitico e commerciale delle carte in tavola, ma anche una preziosa lezione per noi italiani, ed infatti nessun giornale sussidiato di regime ha colto il punto essenziale.
Al massimo, si possono fare facili ironie sul fatto che un titanico progetto triennale sia stato completato in appena un anno, quando la Salerno-Reggio Calabria è immobile da decenni. Certamente questo è vero e molto interessante, ma non è fondamentale.
Il progetto è costato circa l’equivalente di 8 miliardi di dollari, e stranamente nessuno sembra interessato a porsi una domanda fondamentale: come è stato finanziato?
È molto strano in effetti, se consideriamo che in Italia bisogna persino spremere la sanità, bisogna rifare i conti dieci volte per ogni singolo centesimo del bilancio pubblico, e poi alla fin fine, di solito, non se ne fa nulla. E allora perché la nostra ossessione contabile da ragioniere in pensione non ci lascia quantomeno basiti di fronte all’Egitto, che non è certo una superpotenza industriale, che realizza un’opera del genere senza chiedere soldi a nessuna Troika del pianeta?
Scendiamo nel dettaglio: il governo Al Sisi ha incaricato 4 banche semipubbliche di vendere, esclusivamente ad egiziani, obbligazioni pubbliche con rendimento fisso del 12%. Può sembrare un’enormità, ma bisogna aggiungere che in Egitto il tasso d’inflazione attualmente si attesta intorno al 13%-14%, ergo in termini reali questo debito pubblico paga interessi negativi. Ovviamente, un governo può fissare unilateralmente i rendimenti dei propri titoli solo se ha una Banca Centrale ad esso subordinata che “stampi” all’occorrenza, acquistando quello che non si riesce a piazzare.
Ricorda qualcosa? Si, è il meccanismo che abbiamo spiegato tante volte con cui l’Italia ha funzionato fondamentalmente fra gli anni ’30 e gli anni ’70, prima del famigerato divorzio fra Tesoro e Banca d’Italia, a seguito del quale siamo diventati schiavi dei famosi “mercati”.
Al Sisi può fare investimenti pubblici in disavanzo come se non ci fosse un domani, mentre Renzi può solo strisciare ai piedi di Draghi e chiedere se per favore può imporgli le mani.
Quale è la lezione da imparare da questa triste vicenda? Quella che già Pound aveva tentato di farci capire: “Dire che uno Stato non può perseguire i suoi scopi per mancanza di denaro è come dire che un ingegnere non può costruire strade per mancanza di chilometri”.
Detto altrimenti, non esistono limiti finanziari allo sviluppo, ma solo reali e fisici: materie prime, conoscenze, energia. Limiti certamente pesanti, ma l’unico limite che non può esistere è quello della moneta, che può essere creata con la stessa facilità con cui possiamo spedire una mail. Quando qualcuno vi dirà che “non ci sono i soldi” per fare la tal opera, guardatelo bene negli occhi; o è un grillino (se è vestito male) o un piddino (se è vestito bene). Al Sisi dimostra, dopo aver massacrato la feccia salafita, di essere uno statista, pur con tutte le ambiguità legate ai suoi legami con gli Usa ed i sauditi. Noi chi abbiamo? Omicchi, pigliainculo e quaquaraquà, avrebbe detto Sciascia.
Matteo Rovatti

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