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Erdogan incassa ancora: il PKK si scioglie dopo 40 anni di lotta armata

by Sergio Filacchioni
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PKK

Roma, 13 mag – Con una decisione storica, il Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK), organizzazione armata curda fondata da Abdullah Öcalan nel 1978, ha annunciato il proprio scioglimento. La notizia è arrivata al termine di un congresso straordinario, indetto dopo che lo stesso Öcalan, dal carcere turco in cui è rinchiuso dal 1999, aveva chiesto la fine della lotta armata con una lettera datata 27 febbraio. Nei giorni successivi era stato annunciato un cessate il fuoco con lo Stato turco, preludio al passo finale: la dissoluzione del gruppo.

Il PKK si scioglie, Erdogan incassa

Per il presidente turco Recep Tayyip Erdogan si tratta di una vittoria politica di enorme rilevanza. Dopo oltre quattro decenni di conflitto interno, il nemico storico della Turchia – da Ankara definito “organizzazione terroristica” e riconosciuto tale anche da Stati Uniti e Unione Europea – è ufficialmente fuori gioco. Il tutto senza concessioni né negoziati di rilievo, ma attraverso una politica di fermezza militare, repressione interna e pressione diplomatica. La storia del PKK è complessa e, per certi versi, paradigmatica. Nato con l’obiettivo dell’indipendenza dei curdi turchi, il partito si è presto trasformato in una macchina paramilitare che, negli anni Ottanta e Novanta, ha condotto una campagna armata costata decine di migliaia di morti. Dagli anni ’90 in poi, il movimento ha abbandonato formalmente la linea secessionista, chiedendo piuttosto autonomia amministrativa per le regioni curde, insegnamento della lingua curda nelle scuole e riconoscimento costituzionale dell’identità curda. Rivendicazioni mai accolte da Ankara.

I terroristi più pop d’Occidente

Parallelamente, Öcalan ha promosso una trasformazione ideologica che ha lasciato perplessi molti osservatori. Dallo stalinismo originario, il fondatore del PKK ha virato verso un municipalismo libertario ispirato all’americano Murray Bookchin, in una svolta tanto radicale quanto sospetta, che più d’uno ha attribuito a “suggerimenti” provenienti da ambienti atlantici (ovvero: Langley). Una metamorfosi clamorosa e sottovalutata. Da partito marxista-leninista classico, con struttura verticistica, culto della personalità e una visione rivoluzionaria novecentesca, il PKK si è reinventato su basi totalmente nuove. A partire dagli anni Duemila, Öcalan ha cominciato a proporre forme di organizzazione sociale fondate su assemblee popolari, federalismo democratico, ecologismo, parità di genere e diritti LGBTQ+. Temi lontanissimi dalla sua ortodossia ideologica originaria, ma perfettamente in linea con le parole d’ordine delle ONG occidentali. Esempio pratico: nella regione del Rojava (nord della Siria), controllata dalle milizie curde legate al PKK, è stato creato un sistema politico che ricalca fedelmente le teorie di Bookchin. Niente partiti tradizionali, ma “comuni popolari”; il potere è esercitato tramite assemblee locali; è prevista la parità obbligatoria uomo-donna in ogni carica politica e l’agenda è centrata su tematiche ambientaliste e gender. Una “rivoluzione” che ha fatto comodo a molti nel campo occidentale, desiderosi di spacciare un gruppo ex-marxista armato per un modello democratico progressista. Eppure, nonostante le accuse di terrorismo, le ambiguità ideologiche e gli attacchi sanguinosi, il PKK ha goduto per anni di una singolare benevolenza da parte di certa stampa europea, che è riuscita a trasformarlo nel protagonista di una saga romantica. Lo stesso trattamento riservato alle sue emanazioni siriane – PYD, YPG – divenute improvvisamente “alleate” dell’Occidente nella guerra contro l’ISIS e la Syria di Assad.

L’arresto di Öcalan e i compagni italiani

In tutto questo non può mancare un capitolo italiano. Nel 1998, l’Italia sembrò pronta ad accogliere Öcalan, sostenuto da esponenti della sinistra nostrana. Bastarono poche pressioni da parte di Ankara – e qualche telefonata da oltre Atlantico – perché l’ospitalità diventasse frettolosa ritirata. Il leader curdo fu costretto a lasciare il Paese nel silenzio imbarazzato di chi lo aveva appena incensato. Pochi mesi dopo venne catturato a Nairobi dai servizi segreti turchi, con benedizione occidentale annessa. Fidarsi dei comunisti italiani, come sempre, si è rivelata una pessima idea. Oggi, la fine del PKK segna un punto di svolta. Non solo per la Turchia, ma anche per tutti quegli attivisti, analisti e commentatori europei che avevano elevato il partito curdo a simbolo di libertà. A loro spetta ora il compito di spiegare come una formazione armata, ideologicamente ballerina e responsabile di stragi, sia diventata la “resistenza” da sostenere guadagnandosi il posto d’onore nei reportage delle ONG. Erdogan, intanto, porta a casa un risultato strategico. La guerra, almeno per ora, è finita. E senza trattative. Lo scioglimento del PKK è solo l’ultimo tassello di un disegno più ampio. Mentre l’Occidente si perde in chiacchiere su diritti e minoranze, Erdogan si ritaglia il suo posto nel grande riassestamento del Medio Oriente, dove per il romanticismo (purtroppo) non c’è più posto.

Sergio Filacchioni

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