Roma, 24 mag – La nostra società, lo abbiamo visto benissimo in occasione della pandemia da Covid, tende in maniera alquanto grottesca a rifiutare il concetto della morte. Arrivando a cercare per l’uomo una ridicola ricerca del rischio zero. Ma rifiutare la morte, in realtà, significa rifiutare anche la vita. Ne è testimone la storia dell’uomo. Infatti in tutte le società più floride si è sempre avuto un rapporto sano con il concetto di dipartita terrena, che nobilita l’intera esistenza. Curiosamente sono due film, solo all’apparenza così lontani per stile, epoca e genere, a darci un sano insegnamento e monito: Il settimo sigillo e la saga di Final Destination.
Il settimo sigillo e Final Destination
Nel 1957 il grande regista svedese Ingmar Bergman diede alla luce il suo forse più grande capolavoro, Il settimo sigillo. A Bergman l’idea della pellicola venne osservando gli affreschi medioevali. In mezzo a scene di guerre e malattie, sovente si poteva notare la Morte che giocava a scacchi. Ecco così che decise di intitolare il film prendendo spunto dall’Apocalisse di Giovanni, narrando la storia di un nobile cavaliere, impersonato da Max von Sidow, che sta facendo ritorno in Svezia dopo aver combattuto per dieci anni in Terra Santa in una crociata. Attraversando un’Europa devastata dalla peste, incontra la Morte venuta a prenderselo e che lui sfida a scacchi per rimandare l’inevitabile.
Alla fine riesce a fare ritorno a casa per ricongiungersi con la sua famiglia. Ma la Morte gli dà comunque scacco matto, perché ormai la sua ora era giunta. Il cavaliere accetta il suo destino e tutta la pellicola ruota intorno agli interrogativi che l’uomo si pone di fronte alla caducità della vita ed alla paura che ha l’uomo di fronte all’ignoto. Risposte che Bergman, essendo molto religioso, affronta con la fede in Dio. Il settimo sigillo riscosse un successo clamoroso di critica e pubblico e, ancora oggi, è considerato come uno dei grandi capolavori della cinematografia mondiale.
Nel 2000, ispirato al disastro aereo del volo TWA 800 del 17 luglio 1996 da New York a Roma, con scalo a Parigi, e che causò la morte di 230 persone, il regista James Wong diresse Final Destination. Una scolaresca si è imbarcata per un viaggio di dieci giorni a Parigi. Ma uno studente ha una sorta di premonizione nella quale vede l’aereo esplodere in volo. In seguito ad una colluttazione lui ed alcuni altri compagni di scuola vengono fatti scendere ed assistono all’esplosione del velivolo subito dopo il decollo. Da lì in poi la Morte cercherà di venire a prendersi i superstiti, in una macabra sfida.
La pellicola riscuote subito grande successo, sia per la spettacolarità delle scene (quella iniziale è davvero di impatto notevole e difficile da dimenticare), sia per i quesiti che pone, pur se inscenati solo apparentemente in un filone teen movie. Anche la critica resta piacevolmente stupita. Così, dal 2003 al 2011, seguono altri quattro lungometraggi che collegano la trama, mantenendo alta la qualità del narrato.
Un grande inno alla vita
Si arriva così al 2025 ed alla pellicola che completa la saga, vale a dire Final Destination Bloodlines. I primi venti minuti sono puro grande cinema. Siamo negli anni ’50 e ci viene mostrata la premonizione di un disastro all’inaugurazione di un ristorante sospeso su una torre. Il film poi prosegue sulla falsa riga dei precedenti, ma collegando tutta la storia delle altre pellicole a questa prima singola grande tragedia sventata. Chi ha dimestichezza con Final Destination saprà che raramente esiste il lieto fine, ma tutta la saga in realtà può essere letta, allo stesso modo della storia raccontata da Bergman, come un grande inno alla vita, nel non sprecare il tempo in cose che non ti rendono felice (come recentemente mi ha ricordato saggiamente un amico…), di godersi ogni cosa, perché non si sa quando tutto può avere fine.
Ed ecco così che tutto questo ci viene rammentato magnificamente nel monologo del personaggio ricorrente interpretato da Tony Todd, che recita da malato terminale e che morirà alla fine delle riprese. In questo ultimo film la Morte è rappresentata da un’anziana signora e da un lancio di moneta, una sorta di versione moderna degli scacchi, perché anche una saga horror nata per teenager in realtà può nascondere un messaggio profondo, se lo si sa cogliere.
In fondo, parlare della morte non deve essere assolutamente un tabù. Ma anzi deve essere uno sprone per glorificare la vita e farne, per quanto possibile, un’opera d’arte.
Roberto Johnny Bresso