121
Vienna, 15 lug – Una leggenda narra che la decisione finale di invadere l’Iraq nel 2003, allora motivata con le ragioni pretestuose e in fondo ridicole delle armi di distruzione di massa, fu presa dal presidente George Bush jr. dopo che gli fu presentato un rapporto sull’imminenza del picco delle risorse petrolifere a buon mercato. Probabilmente non sapremo mai se esiste in questo un fondo di realtà: in quel caso, una buona intenzione – quella di sollevare gli Usa dalla dipendenza petrolifera – si sarebbe trasformata nella proverbiale via dell’inferno.
Quello che invece è assai più verosimile è che lo storico accordo siglato ieri sul dossier nucleare iraniano trovi una profonda motivazione, nel merito e nelle tempistiche, con la recentissima ufficializzazione del declino della produzione petrolifera americana.
Il rapporto dell’agenzia Usa per il petrolio (Eia) del 7 luglio scorso, infatti, conclude che la produzione di greggio del paese è in diminuzione, con lo scorso mese di aprile quale momento di inversione del trend estrattivo. Allora, infatti, l’output Usa di petrolio toccò il picco a 9,7 milioni di barili al giorno, il più alto dal 1971, ma in maggio la produzione è scesa di 50 mila barili al giorno, e la stessa Eia prevede che il declino continui nel corso dell’anno, quando la media estrattiva sarà dell’ordine di 9,5 milioni di barili al giorno, per scendere poi a 9,3 nel 2016. Niente di trascendentale, quindi, ma occorre tenere conto che storicamente – almeno negli ultimi 25 anni – la crescita dell’economia mondiale richiede almeno un milione di barili al giorno in più ogni anno.
Noi stessi documentammo tempestivamente su queste colonne l’imminenza del declino, nonché successivamente attribuimmo almeno parte di questa svolta alla guerra dei prezzi scatenata dall’Arabia Saudita: il mantenimento di elevati livelli di produzione da parte dell’Opec a fronte di una domanda globale stagnante era destinato infatti a mettere fuori mercato le produzioni a elevato costo di estrazione e raffinazione come gran parte del nuovo petrolio Usa.
C’è poi da considerare che gli Usa, nonostante l’espansione produttiva degli ultimi anni, sono e rimangono un paese fortemente importatore, mentre il divieto di esportazione del greggio tuttora in vigore potrebbe essere una spiegazione alla possibile lentezza del declino estrattivo previsto dalla Eia.
In ogni caso, se pure la produzione statunitense di petrolio dovesse rimanere stazionaria, evento quanto mai improbabile, da oggi al 2020 occorreranno circa sei milioni di barili al giorno in più per alimentare la crescita economica globale. Per questo, liberare l’esportazione iraniana dai vincoli delle sanzioni non poteva che essere un imperativo categorico non solo per Washington ma per tutte le altre parti in causa nel negoziato.
La domanda che dovremmo porci a questo punto è se e quanto lo storico evento viennese del 14 luglio sarà davvero efficace per rifornire il mondo del petrolio tendenzialmente mancante nei prossimi anni.
L’estrazione di greggio nel paese persiano è aumentata nel tempo da 1,4 milioni di barili al giorno nel 1980 fino ai 4,2 milioni nel 2011, dopo di che a causa della condivisione delle sanzioni sull’importazione da parte dell’Unione europea la produzione è calata fino ai 3,2 milioni del 2013, per risalire poi a 3,4 nel 2014. Nel frattempo, però, la popolazione iraniana è più che raddoppiata, stimandosi oggi oltre gli 80 milioni di persone contro i 40 del 1980. Ragione per cui la quantità di petrolio esportata da Teheran nel 2010 era perfino inferiore, seppure di poco, rispetto agli oltre 2,6 milioni di barili al giorno del 1994.
Vero è che le sanzioni avviate unilateralmente dagli Usa e pochi altri paesi fin dalla seconda metà degli anni ’90 del secolo scorso prevedevano anche l’embargo sulle tecnologie di esplorazione, estrazione e raffinazione del greggio, per cui non è escluso che la produzione iraniana possa anche superare in futuro i livelli del 2011, ma appare quanto mai improbabile che la combinazione con la costante espansione demografica e la previsione dell’aumento dei consumi interni quale conseguenza dell’annullamento delle sanzioni – requisito importante per la stabilità del regime degli Ayatollah – possa risultare alla fine in una crescita delle esportazioni rispetto ai livelli del 2010-2011.
In conclusione, l’accordo sul dossier nucleare iraniano molto probabilmente rispondeva a un’esigenza vitale per l’economia globale, ma la sua portata in termini di disponibilità di petrolio aggiuntivo nei prossimi anni potrebbe non superare il valore costante di un milione di barili al giorno, allontanando quindi di un solo anno, a parità di tutte le altre condizioni, inclusa l’ipotesi di un ritorno alla crescita dell’economia globale, la prospettiva di una relativa scarsità negli approvvigionamenti mondiali di greggio.
In ogni caso, questa interpretazione potrebbe anche fare luce sul disinteresse americano per le furibonde proteste israeliane, mentre sul lato dei vincitori non è possibile annoverare né gli stessi Usa – che con l’accordo di fatto rinunciano al tentativo comunque disperato di sostenere i prezzi del greggio, né l’Arabia Saudita da sempre in conflitto col potente vicino sciita. Per una volta, limitatamente e non per proprio merito, un moderato sollievo potrebbe risultarne per l’Unione europea e anche per l’Italia, grandi partner commerciali della repubblica islamica. E forse per la Russia, che molto si è spesa per l’accordo anche in ragione dei suoi crescenti scambi energetici, militari e economici con Teheran.
Francesco Meneguzzo
Vienna, 15 lug – Una leggenda narra che la decisione finale di invadere l’Iraq nel 2003, allora motivata con le ragioni pretestuose e in fondo ridicole delle armi di distruzione di massa, fu presa dal presidente George Bush jr. dopo che gli fu presentato un rapporto sull’imminenza del picco delle risorse petrolifere a buon mercato. Probabilmente non sapremo mai se esiste in questo un fondo di realtà: in quel caso, una buona intenzione – quella di sollevare gli Usa dalla dipendenza petrolifera – si sarebbe trasformata nella proverbiale via dell’inferno.
Quello che invece è assai più verosimile è che lo storico accordo siglato ieri sul dossier nucleare iraniano trovi una profonda motivazione, nel merito e nelle tempistiche, con la recentissima ufficializzazione del declino della produzione petrolifera americana.
Il rapporto dell’agenzia Usa per il petrolio (Eia) del 7 luglio scorso, infatti, conclude che la produzione di greggio del paese è in diminuzione, con lo scorso mese di aprile quale momento di inversione del trend estrattivo. Allora, infatti, l’output Usa di petrolio toccò il picco a 9,7 milioni di barili al giorno, il più alto dal 1971, ma in maggio la produzione è scesa di 50 mila barili al giorno, e la stessa Eia prevede che il declino continui nel corso dell’anno, quando la media estrattiva sarà dell’ordine di 9,5 milioni di barili al giorno, per scendere poi a 9,3 nel 2016. Niente di trascendentale, quindi, ma occorre tenere conto che storicamente – almeno negli ultimi 25 anni – la crescita dell’economia mondiale richiede almeno un milione di barili al giorno in più ogni anno.
Noi stessi documentammo tempestivamente su queste colonne l’imminenza del declino, nonché successivamente attribuimmo almeno parte di questa svolta alla guerra dei prezzi scatenata dall’Arabia Saudita: il mantenimento di elevati livelli di produzione da parte dell’Opec a fronte di una domanda globale stagnante era destinato infatti a mettere fuori mercato le produzioni a elevato costo di estrazione e raffinazione come gran parte del nuovo petrolio Usa.
C’è poi da considerare che gli Usa, nonostante l’espansione produttiva degli ultimi anni, sono e rimangono un paese fortemente importatore, mentre il divieto di esportazione del greggio tuttora in vigore potrebbe essere una spiegazione alla possibile lentezza del declino estrattivo previsto dalla Eia.
In ogni caso, se pure la produzione statunitense di petrolio dovesse rimanere stazionaria, evento quanto mai improbabile, da oggi al 2020 occorreranno circa sei milioni di barili al giorno in più per alimentare la crescita economica globale. Per questo, liberare l’esportazione iraniana dai vincoli delle sanzioni non poteva che essere un imperativo categorico non solo per Washington ma per tutte le altre parti in causa nel negoziato.
La domanda che dovremmo porci a questo punto è se e quanto lo storico evento viennese del 14 luglio sarà davvero efficace per rifornire il mondo del petrolio tendenzialmente mancante nei prossimi anni.
L’estrazione di greggio nel paese persiano è aumentata nel tempo da 1,4 milioni di barili al giorno nel 1980 fino ai 4,2 milioni nel 2011, dopo di che a causa della condivisione delle sanzioni sull’importazione da parte dell’Unione europea la produzione è calata fino ai 3,2 milioni del 2013, per risalire poi a 3,4 nel 2014. Nel frattempo, però, la popolazione iraniana è più che raddoppiata, stimandosi oggi oltre gli 80 milioni di persone contro i 40 del 1980. Ragione per cui la quantità di petrolio esportata da Teheran nel 2010 era perfino inferiore, seppure di poco, rispetto agli oltre 2,6 milioni di barili al giorno del 1994.
Vero è che le sanzioni avviate unilateralmente dagli Usa e pochi altri paesi fin dalla seconda metà degli anni ’90 del secolo scorso prevedevano anche l’embargo sulle tecnologie di esplorazione, estrazione e raffinazione del greggio, per cui non è escluso che la produzione iraniana possa anche superare in futuro i livelli del 2011, ma appare quanto mai improbabile che la combinazione con la costante espansione demografica e la previsione dell’aumento dei consumi interni quale conseguenza dell’annullamento delle sanzioni – requisito importante per la stabilità del regime degli Ayatollah – possa risultare alla fine in una crescita delle esportazioni rispetto ai livelli del 2010-2011.
In conclusione, l’accordo sul dossier nucleare iraniano molto probabilmente rispondeva a un’esigenza vitale per l’economia globale, ma la sua portata in termini di disponibilità di petrolio aggiuntivo nei prossimi anni potrebbe non superare il valore costante di un milione di barili al giorno, allontanando quindi di un solo anno, a parità di tutte le altre condizioni, inclusa l’ipotesi di un ritorno alla crescita dell’economia globale, la prospettiva di una relativa scarsità negli approvvigionamenti mondiali di greggio.
In ogni caso, questa interpretazione potrebbe anche fare luce sul disinteresse americano per le furibonde proteste israeliane, mentre sul lato dei vincitori non è possibile annoverare né gli stessi Usa – che con l’accordo di fatto rinunciano al tentativo comunque disperato di sostenere i prezzi del greggio, né l’Arabia Saudita da sempre in conflitto col potente vicino sciita. Per una volta, limitatamente e non per proprio merito, un moderato sollievo potrebbe risultarne per l’Unione europea e anche per l’Italia, grandi partner commerciali della repubblica islamica. E forse per la Russia, che molto si è spesa per l’accordo anche in ragione dei suoi crescenti scambi energetici, militari e economici con Teheran.
Francesco Meneguzzo