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La colossale cresta delle industrie Usa degli armamenti: le confessioni di un insider

by Valerio Savioli
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Roma, 28 mag – Che la guerra – e i suoi risvolti geopolitici – siano intrinsecamente legati agli interessi economici non lo si scopre certo oggi. La questione è nota anche in quei lidi che non intendono relegare la stessa guerra solo ed esclusivamente entro un perimetro meramente materiale. Celebre il discorso di commiato di Dwight Eisenhower, in cui l’allora presidente Usa, in uscita, denunciò i potenziali pericoli del comparto militare industriale. Ora il conflitto deflagrato nel cuore dell’Europa riporta al centro del dibattito la questione dei grandi interessi economici e il delicato ma decisivo ruolo delle grandi corporate degli armamenti e a parlarne sono Newsweek e la trasmissione 60 Minutes della CBS.

La guerra in corso è stata paragonata, da inviati di lunga data come Fausto Biloslavo, ai terribili scontri delle due guerre mondiali. Più volte in questi mesi il direttore di Analisi e Difesa e volto noto di TgCom, Gianandrea Gaiani, ha sottolineato quanto le riserve di armamenti e munizionamenti occidentali si stiano rimpiccolendo sempre più e quanto questo assottigliamento stia mettendo a repentaglio la cosiddetta readiness, ossia la prontezza e la capacità di risposta militare (non solo difensiva) delle rispettive nazioni.

Industrie degli armamenti, “è tutta questione di soldi, il resto è conversazione”

La rigida legge di mercato, come ci viene costantemente ripetuto, corrisponde all’aumento (vertiginoso) della domanda un aumento, altrettanto vertiginoso, dei prezzi. Insomma, oltre al celebre profumo del napalm, al mattino, nell’aria si percepiscono anche gli affari d’oro delle industrie degli armamenti.

Negli Usa, con quel curioso e cinico tempismo da campagna elettorale, si sta cominciando a parlare di price gauging, ossia di una vera e propria truffa dei prezzi che si avvera quando i rivenditori – in questo caso i produttori di armi – si approfittano dei picchi di domanda addebitando prezzi esorbitanti all’acquirente, in questo caso lo Stato centrale americano. Una pratica che usando un eufemismo potremmo definire border line, visto che questa, sulla carta (straccia), viene considerata illegale in buona parte degli stati americani. 

Parla il supernegoziatore

A sostenere questa tesi è Shay Assad, colui che per decenni ha ricoperto il ruolo di negotiator presso il Departement of Defense, il ministero della Difesa americano. Assad era la cerniera tra il potere politico e l’establishment militare, a lui spettava letteralmente negoziare e portare a termine fondamentali accordi economici per conto del governo americano: ha prestato i suoi servizi per le presidenze Bush, Obama e Trump ma ha anche trovato il tempo per collaborare con Raytheon, il gigante dell’industria degli armamenti americani, di cui Lloyd Austin, l’attuale capo del Pentagono, aveva già ricoperto il ruolo di consigliere.

Assad, intervistato dalla trasmissione della CBS, 60 Minutes, ha rilasciato dichiarazioni a dir poco sconcertanti, definendo “inconcepibile” il livello raggiunto dal price gaugin, ossia dalla “cresta” che l’apparato militare industriale sta facendo sulle tasse dei contribuenti e sulla pelle del carnaio umano che insanguina l’Ucraina. D’altronde è lo stesso Assad ad ammettere che è il Pentagono, il cui budget annuale arriva a sfiorare i 900 miliardi di dollari e la metà di questo finisce nelle mani degli stessi appaltatori, a “strapagare per quasi tutto: per radar e missili… elicotteri… aerei… sottomarini… fino alle viti e ai bulloni.”

Per riportare un altro esempio concreto Assad fa riferimento al sistema missilistico Patriot, un pilastro delle difese aeree americane e Nato, in uso anche in Ucraina e Taiwan. Nel 2015, Assad ha ordinato una revisione scoprendo che Lockheed Martin e il suo subappaltatore, Boeing, stavano sovraccaricando il Pentagono e gli stessi alleati degli Stati Uniti di centinaia di milioni di dollari per i missili PAC-3 del Patriot.

Nelle mani degli speculatori

Un altro aspetto interessante, capace di legare l’industria degli armamenti alla geopolitica, è il fatto che, tecnicamente, gli Usa non hanno alternative rispetto al comparto militare industriale a stelle e strisce: “Non abbiamo altro posto dove andare. Per molte di queste armi che vengono inviate in Ucraina in questo momento, c’è un solo fornitore. E le aziende lo sanno.” 

Sebbene il sistema socioeconomico americano sia impiantato sul modello liberale, gli interessi strategici della nazione devono mantenere la primigenia e il timone deve restare nelle mani degli intricatissimi vertici politici (si vedano anche i perimetri di libertà dei social) e qui il discorso si fa complicato e le speculazioni sugli equilibri tra Pentagono, ministero della Difesa e l’intero e sconfinato apparato militare rischiano di portarci fuori strada.

Monopolio del capitale e del grilletto

È però nel 1993, in concomitanza con la colossale fusione delle tante aziende di armamenti, che la situazione ha subito un netto peggioramento: si passò da cinquantuno grandi appaltatori a soli cinque giganti. Una fusione che sarebbe stata caldeggiata dallo stesso Pentagono che portò al crollo della concorrenza e alla nascita di un vero e proprio cartello; da questo processo fu lo Stato, avendo perso potere e leva contrattuale, ad uscirne con le ossa rotte. Il contesto peggiorò, se possibile, ancora di più quando, in piena enfasi liberalizzatrice, furono tagliati ben 130.000 impieghi – corrispondenti al 50 % – destinati alla supervisione e alla negoziazione dei contratti per la Difesa: “Lascia che gli affari facciano le loro cose, giusto? Alla fine è stato un disastro. […] Erano [il governo] convinti di poter fare affidamento sulle società per fare ciò che era nel migliore interesse dei combattenti e dei contribuenti.”

Da quel momento e grazie a quelle infauste decisioni i prezzi cominciarono a salire vertiginosamente: si pensi che un missile stinger nel 1991 costava 25.000 dollari, ora con il gigante Raytheon come solo fornitore il prezzo è lievitato a 400.000 dollari: un aumento di ben sette volte!

“Le motivazioni e gli obiettivi dell’industria sono diversi da quelli del Dipartimento della Difesa”

Un’altra voce autorevole è quella del generale in pensione Chris Bogdan. È lo stesso generale – il quale si è dedicato per anni alla supervisione e alla fornitura degli armamenti più sofisticati – a sostenere che il problema sia solo agli inizi. Nel 2012 Bogdan ha preso le redini del prestigioso e delicato programma F-35 Joint Strike Fighter. Il programma, nelle mani del colosso Lockheed Martin che si è trattenuto sia i dati di progettazione che i futuri diritti per la manutenzione dei jet, era in ritardo di sette anni rispetto alla tabella di marcia e, secondo quanto riportato da CBS, si stavano già registrando eccessi di spese intorno ai 90 miliardi di dollari rispetto alle stime originali. Bogdan ci ha però tenuto a rassicurare tutti e ha chiosato sostenendo che “i costi maggiori devono ancora arrivare per il supporto e la manutenzione, che potrebbero finire per costare ai contribuenti americani 1,3 trilioni di dollari.”

Quindi, se il sistema di armamenti e gli stessi jet appartengono al ministero della Difesa e quindi allo stesso Stato, senza il colosso Lockheed Martin gli aerei non si possono né mantenere, né sostenere, “e questo perché non abbiamo acquistato o negoziato in anticipo per ottenere i dati tecnici di cui avevamo bisogno in modo che quando una parte si rompe, il DOD [dipartimento della Difesa] può aggiustarla da solo.”

Nell’eventualità che dei componenti dei jet si guastino sarà la subappaltatrice TransDigm a intervenire, il cui fondatore, Nick Howley, è già stato convocato due volte davanti al Congresso per rispondere alle accuse di… price gauging! Sempre secondo CBS, il gruppo di revisione di Shay Assad ha scoperto che il governo pagherà alla società “119 milioni di dollari” per parti che “dovrebbero costarne 28 milioni”John Kleeves, nel suo Vecchi Trucchi, definiva gli Stati Uniti come quella ciclopica multinazionale con al suo servizio l’esercito più potente al mondo. 

Valerio Savioli

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1 commento

fabio crociato 28 Maggio 2023 - 10:51

Interessante. Ma è anche interessante rammentare che nel criminale gross-profit, ovvero margine di contribuzione, alla faccia della etica, c’è la fetta per gli infami, procacciatori d’ affari, guerrafondai alla Elenski e loro bastardi promotori satrapi, latitanti in dorate pensioni a vita !! Solo loro riescono oggi a stare pienamente latitanti, senza timori, chiaro ?
Ci sono molti e diversificati surplus, anche per i neo-marxisti.

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