Kiev, 26 feb – “Ci risiamo”, avrà pensato Lenin guardando affiorare dalla nebbia dei fumogeni una massa scura di corpi indefiniti. Ombre non allineate, cento teste di un unico Idra senz’ali, di un esercito senza forma, plotone di esecuzione nella sostanza. La corda che penzola dalla mano della creatura, il segno immarcescibile della forca, la risata inespressiva del boia.
Un giro di corda intorno alla vita e un giro intorno alla testa come collana grezza. Poi la spinta, e il carpiato che non riesce: voto 0. Lenin cade a peso morto picchiando la testa lucida contro l’asfalto. Poi i lillipuziani conquistano le vette del Gulliver statuario, creano formicai inoperosi sulla schiena del titano orizzontale.
Tutti in gita su Lenin per un viaggio psichedelico, il tempo di una foto ricordo con la fiera abbattuta, di un sorriso da troppo tempo trattenuto, un’esposizione universale di denti che poi si spengono come lampioni presi a sassate. Torna il buio. Il capo comitiva alza l’ombrellino giallo, surrogato di un sole solo stampato sulla parete grigia della nebbia artificiale. E tutti lo seguono verso la prossima tappa, il prossimo esemplare di Lenin da cacciare in branco. Magari questa volta riusciranno a frantumarlo, le viscere gelide sparpagliate a coprire la terra rorida, a tagliarne via un pezzo da incorniciare a casa. L’orecchio di Lenin. Il mento con pizzetto di Lenin. Il dito indice di Lenin. Speriamo che non abbia le mani in tasca.
Sono già decine le statue raffiguranti Lenin ed altri simboli della rivoluzione d’Ottobre, ad essere state danneggiate o completamente distrutte in Ucraina, seguendo una prassi consolidata da tempo. C’è infatti un’immagine che accompagna i capovolgimenti di fronte della storia, un’azione scritta nel copione di ogni palingenesi politica: l’abbattimento delle statue del passato, i guardiani della storia di ieri che sembrano pesare sulla pagina che si vuole girare. Lenin aveva già conosciuto il sapore dell’asfalto dopo i mutamenti seguiti alla caduta del muro di Berlino, trovandosi in compagnia del fondatore del KGB Dzerzhinsky e dei baffi di Stalin.
Accanto a loro, nel paradiso delle statue cadenti, da poco sono entrati Gheddafi e Saddam Hussein, che la corda l’ha conosciuta di persona e non solo attraverso il macabro vodoo. Anche Assad, seppure ancora in sella, ha visto cadere una propria statua per mano del ribellismo terrorista in cerca di riti propiziatori, con la speranza attraverso il simbolo di colpire il presidente siriano. Nel bosco di statue abbattute dai taglialegna iconoclasti riposano anche Ceausescu e Hoxha, Hitler e Mussolini.
Ma il paradiso delle statue cadenti è ben più affollato, fitto di condottieri, re, capi di stato, papi. Persino cavalli, trascinati nel destino del proprio cavaliere, come il Giustiniano a cavallo distrutto durante la conquista ottomana di Costantinopoli, o come le statue equestri di Luigi XIV e Luigi XV, cancellate dalla rivoluzione francese. Fu proprio in quel periodo che l’abate Grégoire coniò il termine “vandalismo” per por fine alla distruzione indiscriminata di beni culturali. E così 28 statue gotiche dei re biblici di Notre Dame riposano accanto al Giulio II bolognese di Michelangelo e al Sisto V romano di Taddeo Landini. Il primo papa vittima dei Bentivoglio, il secondo della repubblica giacobina. Rimane lo spazio per le vestigia formali di un principio morto da tempo. Alla statua della libertà fischiano le orecchie, e pensando al capovolgimento di fronte che mezzo mondo vorrebbe fare nei suoi confronti, è bene che impari a camminare sulle acque.
C’è sempre un’ombra che vela lo sguardo di chi si lascia andare al gesto catartico della vendetta di popolo, alla furia iconoclasta contro le statue. L’ombra della massa vigliacca che uccide l’uomo morto, dei nani che abbattono il gigante come unico modo per salirgli sulle spalle, per guardare dalla stessa altezza il mondo. Siamo lontani dal gesto solitario e audace di Davide contro Golia. Siamo più vicini ai 25 aprile di ogni epoca, dove il corpo del nemico diventa banchetto di sciacalli, appeso per i piedi e vilipeso, stuprato in branco. La statua che cade suona come una campana a morto per chi la distrugge, per chi profana un’urna funeraria che sbriciolata perde la propria sacralità. Nel momento stesso in cui cade, il suo spirito è già volato via. La cenere che lascia in terra è solo polvere, che un attimo dopo si mischierà alla terra raggrumata sotto le unghie di chi colpisce alle spalle.
Chi si affacci al balcone della storia, vedrà mille piedistalli vuoti, foto senza soggetto, basamenti senza colonne. Il vuoto che lasciano le statue riflette quello di chi le ha distrutte. Forse per questo, a Kiev, al posto di una delle statue di Lenin hanno messo un cesso d’oro. Una metafora dal sapore situazionista per rappresentare il potere, e dal retrogusto biblico: di vitello d’oro.
Simone Pellico