Roma, 4 nov – Dopo gli accordi economico-strategici stretti con la Cina all’indomani della decisione di svincolarsi da Washington, il presidente filippino Rodrigo Duterte è volato a Tokyo per incontrare il premier Shinzo Abe e il ministro degli esteri Fumio Kishida. Il risultato più importante dell’incontro è stato il sostegno da parte dell’Impero nipponico con 21 miliardi di yen, circa 185 milioni di euro, per il progetto di sicurezza marittima del Mar delle Filippine annunciato da Duterte.
“Le Filippine – ha detto Duterte – continueranno a lavorare a stretto contatto con il Giappone su questioni di interesse comune nella regione e a sostenere i valori comuni della democrazia, dell’adesione alle leggi e della risoluzione pacifica delle dispute, inclusa quella sul Mar Cinese Meridionale”. “Il Giappone – risponde Abe – saluta gli sforzi del Presidente Duterte nella sua visita in Cina e il tentativo di rafforzare e far progredire le relazioni bilaterali tra le Filippine e la Cina”. Soprattutto quest’ultima frase, forse più dell’incontro stesso, ha fatto strabuzzare gli occhi a più di un esperto del risiko della geopolitica. Per chi fosse abituato a ragionare in termini di schemi semplificati infatti la Cina è il grande nemico degli Usa in Asia mentre il Giappone resta il più grande alleato di Washington che controbilancia lo strapotere di Pechino. Ma a ben guardare non è esattamente così. La nuova politica di riarmo e di riappropriazione dello spirito imperiale nipponico intrapresa da Shinzo Abe e attuata dal suo braccio destro Tomomi Inada, che ha visto una forte accelerazione dopo la schiacciante vittoria delle elezioni dello scorso luglio, mentre da una parte fa sponda sulla scelta strategica statunitense di “mantenere” l’alleato giapponese dall’altra sta preoccupando non poco Washington per la crescente autonomia delle isole del Sol Levante.
Agli allarmi di Usa Today contro la politica ultranazionalista della “Black Lady” di Abe sono seguite anche vignette satiriche di Global Times, una delle quali raffigura Abe che si destreggia abilmente tra un orso e un’aquila, entrambi preoccupati, che rappresentano ovviamente il primo la Russia e il secondo gli Stati Uniti. L’articolo a corredo della vignetta lancia l’allarme sulla sempre crescente emancipazione del Giappone dalle linee della politica estera americana che potrebbe portarlo tra le braccia di Mosca. Ma al contempo fa notare come il Giappone potrebbe addirittura staccarsi anche da questa logica bipolarista e formare un polo a sé nel pieno degli interessi nazionali. Ovviamente è questa la chiave di lettura della frase di Abe che, dopo aver alzato i toni contro Pechino ma anche contro Seul per far sentire la propria voce contro le ingerenze militari – ma anche storico-culturali – dei vicini ora cerca di distendere i rapporti e creare una nuova rete strategica partendo da una posizione di forza.
D’altra parte questa è stata la stessa scelta intrapresa da Duterte che solo dopo aver alzato i toni contro la Cina e aver vinto, lo scorso luglio, l’arbitrato internazionale sulla sovranità delle isole Scarborough ha potuto tendere la mano a Pechino per poter fare accordi senza essere considerato una eventuale colonia. E subito dopo ha guardato anche a Tokyo, lo storico nemico del gigante cinese, in un gioco di sponde che garantisca prima di tutto gli interessi nazionali e contemporaneamente una sfera di comune prosperità strategica ed economica tra le parti in gioco e che potrebbe portare a uno scudo di difesa del sud-est del Pacifico che coinvolga solo le potenze direttamente interessate senza ingerenze di altri incomodi. Difesa degli interessi nazionali, rifiuto dei diktat della politica estera imposta, rottura degli schemi, recupero e difesa della propria cultura storica e spirituale e infine accordi economici, strategici e militari per costruire una rete di potenze che difendano gli interessi di ognuna e al contempo gli interessi più grandi della loro intesa. Forse in Europa dovremmo cominciare a imparare dall’Estremo Oriente asiatico.
Carlomanno Adinolfi