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Terrorismo e media: sappiamo davvero tutto? La testimonianza di un sopravvissuto a Boko Haram

by La Redazione
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Roma, 27 gen – Nella maggior parte dei casi, quando si verificano attentati terroristici, vuoi con l’utilizzo di ordigni esplosivi o di veri e propri commando armati, l’attenzione è veicolata sempre verso il colpo di scena, verso il sequestro eccellente, verso blitz dell’ultimo secondo; meglio se effettuato da soldati di élite esteri. Tuttavia, vi sono tanti operatori silenti, che lavorano duramente, rischiano la vita (alle volte la perdono) e spesso non prendono alcun merito, anzi se periscono in azione sono totalmente ignorati, “hanno solo svolto il loro lavoro per cui sono pagati”. Riportiamo qui la testimonianza diretta di Giovanni Di Gregorio, già parà della Folgore, transitato poi nel settore delle sicurezza privata ai massimi livelli, ora amministratore delegato della compagnia militare privata SecPro Africa. “Siamo nel 2013 e mi trovo nel nord della Nigeria e precisamente a Kano”, racconta Di Gregorio, “stavamo procedendo con un security assessment per conto di una ditta italiana”. In quegli anni, Boko Haram era radicato principalmente nel nord del paese, Kano la sua roccaforte.

La ditta italiana stava lavorando per la costruzione di pozzi in zone remote, per zone remote si intendono villaggi sperduti in cui non si è mai insediato l’uomo bianco. L’uomo bianco è apostrofato dai locali col termine “Bature”, che significa fantasma. Aspetto fondamentale anche per capire il grado di sviluppo di certe comunità e la situazione in cui le ditte si trovano a lavorare. Il nostro Di Gregorio ricorda bambini terrorizzati nel vedere i bianchi, in quanto convinti che si trattasse del fantasma di qualche loro antenato. Il personale che si occupava della sicurezza di questa ditta, sia a livello di scorta armata (soldati nigeriani come previsto dalla legge) che a livello di servizi informativi, alloggiava nella foresteria del palazzo del governo e prendeva costantemente contatti con i capi dei villaggi interessati dalla zona di lavoro. Come spiega di Gregorio, il benestare del capo villaggio, anche solo per transitare in una determinata area, è fondamentale e necessario. Ovviamente i tragitti da percorrere, per motivi di sicurezza, sono pianificati con cura, ma il 17 gennaio 2013 la squadra che si occupa della scorta per contingenti motivi si trattiene oltre l’orario stabilito. Alla fine il convoglio riesce a muoversi verso un check point militare nei pressi di Kano, spiega dettagliatamente Di Gregorio, fino al punto in cui tutti i veicoli sono costretti a rallentare a causa dei dossi artificiali. Vicino all’auto di scorta con a bordo sei uomini armati, si piazza un altro veicolo con a bordo un uomo e tre bambini, di chiara fede musulmana a giudicare dagli abiti.

“Mentre controllavo la situazione stando seduto sul sedile anteriore della mia auto, l’imboscata ha inizio e squarcia quel momento di apparente tranquillità”, gli uomini della scorta vengono falciati, “mi accorgo di essere in prossimità di un canale di scolo e mi ci butto trascinando il mio autista”. Pochi secondi dopo verrà crivellata di colpi anche la macchina di Di Gregorio. Solo uno dei soldati nigeriani addetti alla scorta si salva, palesemente sotto shock, è coricato in posizione fetale vicino all’auto su cui viaggiavano i bambini e non riusciva a rispondere al fuoco. Il camion della ditta italiana che si stava occupando dei lavori era bersagliato dai terroristi, ogni anima viva era bersagliata dai terroristi di Boko Haram. “Il canale di scolo era costeggiato da un muretto che ci dava protezione, così sono riuscito a chiamare i servizi segreti italiani presenti in Nigeria, nel caso fossi morto avrebbero potuto recuperare il corpo; e nello stesso tempo ad avvicinarmi al soldato sotto shock”, racconta Di Gregorio. La situazione di pericolo sembra quindi avere una svolta: il muro dava una certa protezione e c’erano a disposizione delle armi. “Il canale di scolo fungeva da trincea, io ed il mio autista eravamo pronti col nostro AK47 per rispondere al fuoco, i terroristi  si avvicinavano velocemente, ma grazie a questa strategia riuscivamo a respingerli”.

“Continuavo a pensare ai bambini che piangevano, i terroristi si stavano avvicinando proprio perché volevano sterminarci tutti, e non avrebbero fatto distinzioni”, in occasioni del genere è fondamentale ripristinare la calma e l’attenzione, proprio per non attirare chi sta attaccando, e nello stesso tempo organizzare al meglio la difesa. “Non curanti del pericolo e carichi di adrenalina, riusciamo a raggiungere l’auto dei bambini senza quasi pensare ai terroristi, la bimba ha una pallottola nella gamba ed il femore è spezzato, i suoi fratelli sono morti. Ma non posso abbandonarla al suo destino, rischiando di essere uccisi ad ogni raffica, la salviamo”, come ricordato pocanzi sono di fede islamica anche questi bambini, il che la dice lunga sulla metodologia di questi gruppi terroristici. Il loro unico scopo è uccidere, meglio se bianchi, ma comunque uccidere. “Fortunatamente il soldato sopravvissuto si riprende, quindi ci troviamo in tre a rispondere al fuoco”: ciò che si percepisce come un’attesa indefinita, in realtà si svolge in pochissimi minuti. Grazie alla preparazione tattica di Giovanni sono state salvate delle vite innocenti, e quel che restava del convoglio si è diretto verso il paesino più vicino; quanto meno per allontanarsi dalla gittata dei mitra.

“Ovviamente abbiamo dovuto giustificare le armi, e la presenza della bambina ferita”, una volta ripristinata la calma, situazioni come queste in cui ci sono feriti di mezzo, impongono soluzioni veloci ed efficaci. “Volevano curare la ferita con la terra e cauterizzarla con acido di batteria, mi sono imposto con la forza per dare un primo soccorso adeguato, usando la mia maglia come una benda, e steccando la gamba con legno e fil di ferro”. I servizi segreti nigeriani danno subito aiuto al nostro connazionale, indicando dove e come raggiungere una zona sicura, ma Di Gregorio non ci sta, “avevo la responsabilità morale di una bambina ferita, poteva essere mia figlia e dovevo trovare al più presto un ospedale”.  Giovanni ordina di tornare a Kano per prendere informazioni sulla famiglia della bimba (poi si capirà l’importanza di queste informazioni), possiamo quindi immaginare il pericolo di tornare nello stesso luogo dell’attacco di Boko Haram, per poi dirigersi immediatamente al palazzo del governo. All’arrivo, tutti si preoccupano per lui e la bambina passa quasi in secondo piano: “Mi son dovuto arrabbiare anche lì, pretendendo un medico ed una scorta fino all’ospedale sicuro più vicino. L’ho tenuta in braccio tutto il viaggio, ho rischiato la vita per salvarla e sicuramente non l’avrei abbandonata”. La Nigeria ha le sue logiche e la sanità si paga, meglio se in contanti. All’ospedale di proprietà libanese (molto sicuro per la qualità dei servizi offerti) vogliono sapere chi è la bambina e chi è il padre, “non c’era tempo per accertarsi se il padre potesse pagare o meno, sicuramente non avrebbe potuto, quindi ho pagato tutto io”, afferma Di Gregorio.

Le Compagnie Militari Private si avvalgono di istituti d’eccellenza, e spesso risultano utili anche alla gente del posto che subisce la guerra. Episodi come questi hanno sempre un’indagine d’ufficio per ricostruire i fatti, quindi dopo la corsa all’ospedale c’è l’interrogatorio. “La cosa che mi ha più rattristato è il totale disinteresse dell’amministrazione nigeriana verso i caduti. I famigliari se la caveranno con una pensione di circa 10 euro al mese”. Per converso, paesi martoriati dal terrorismo, sono comunque molto attenti alla situazione degli stranieri che per qualsiasi ragione si trovano sul territorio nazionale. Ovviamente viene coinvolto l’ambasciatore italiano, il quale offre tutta l’assistenza possibile, ed una volta accertata e stabilizzata la situazione, i lavori possono continuare. “Avevo sempre in mente la bambina, che si chiama Aicha non l’ho ancora detto, ed i soldati morti dimenticati dai loro politici. Pago tutte le spese (pre e post operatorie) per Aicha e faccio organizzare un incontro con le famiglie dei caduti”. Quindi, dopo circa trenta giorni, un nuovo convoglio riparte alla volta di Kano. La bimba è ancora in ospedale (ne avrà per altri tre mesi), e si scopre che il padre era morto in seguito alle ferite riportate: “Durante l’assalto, abbiamo notato solo la bambina ferita, l’abbiamo nascosta nel canale di scolo, e quindi durante la fuga sotto il fuoco nemico, abbiamo portato solo Aicha in quanto gravemente ferita”, racconta Di Gregorio con la voce spezzata dall’emozione.

Arriviamo poi all’incontro con le famiglie che hanno perso i loro cari, nonché la fonte di sostentamento per vivere. “E’ facile voler sapere com’è la guerra, un po’ meno dimenticare le persone fatte a pezzi dai proiettili mentre ti stanno proteggendo. Per questo ho creato una fondazione per sostenere le famiglie di chi ha perso la vita in servizio, precisamente si chiama No Boko No More”. Senza scomodare entità trascendenti o Forze Speciali di mezzo mondo, spesso perdiamo di vista ciò che molti uomini (connazionali tra l’altro) fanno in silenzio, ma alla fine non verranno ricordati, non andranno in televisione; ma avranno il bel ricordo di aver salvato tante vite, avranno il privilegio di poter far sorridere tante persone, avranno il privilegio di essere ospitati nelle capanne di tanti uomini che non hanno nulla da offrire, se non la loro lealtà. “Ah dimenticavo”, afferma Di Gregorio, “dal 2013 aiutiamo costantemente Aicha e sua madre, in modo da poter dare un’istruzione e un minimo di sostentamento dignitoso a queste anime innocenti”.

Francesco Arcari

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1 commento

Cristiano Meli 27 Gennaio 2019 - 11:59

Il Pirmato Nazionale sta finendo nel medesimo “canale di scolo”…

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