Roma, 28 feb – All’approssimarsi del sesto anniversario dall’inizio del conflitto civile siriano, la situazione pare essere a un nuovo punto di svolta, che potrebbe portare alla sua progressiva conclusione – troppe sono le parti in causa per pensare che da un giorno all’altro le armi cessino magicamente di sparare – o che potrebbe portare la Siria, e l’intero Medio Oriente, sull’orlo di un precipizio ancora più sanguinoso. Fra domenica e lunedì, con una azione fulminea, la Forza Tigre ha ultimato la manovra che le ha permesso di coprire la quindicina di chilometri che separava il territorio in mano ai governativi ad est di Aleppo dalla zona controllata dalle milizie arabo curde delle Syrian Democratic Forces (SDF), strappando diverse cittadine e villaggi al controllo dell’Isis, ma soprattutto sbarrando la strada al Free Syrian Army (FSA), sostenuto e affiancato sul campo dall’esercito turco, che dopo la conquista di Al Bab puntavano verso sud, verso l’Eufrate e quindi verso il cuore del territorio occupato dal sedicente Stato Islamico.
Proprio la strenua resistenza opposta dall’Isis nella battaglia di Al Bab, battaglia che ha mietuto un numero importante di vittime non solo fra i ribelli moderati ma anche fra le forze armate turche, ha dato all’esercito regolare siriano il tempo di organizzare questa operazione che, congiungendo la provincia di Aleppo alla regione curda, segna un momento storico nel conflitto. Le SDF infatti, appoggiate dagli Stati Uniti che hanno identificato in queste milizie l’unico alleato credibile sul campo, da tempo hanno un rapporto ambiguo con il governo di Damasco. Non lo combattono quasi mai in modo aperto, ma non mancano di sottolineare il loro desiderio di restare a far parte della Siria solo nel quadro di una riforma federale dello Stato. Riforma che i Turchi non possono accettare, in quanto porrebbe le basi per una entità curda alleata al PKK (il principale raggruppamento politico-militare dei Curdi di Turchia). Proprio per evitare che fossero le SDF, composte anche da arabi e turcomanni, ma a guida fondamentalmente curda, a sconfiggere l’Isis unendo territorialmente i cantoni di Kobane e Afrin, la Turchia aveva invaso la Siria settentrionale, allora in mano allo Stato Islamico.
L’ipotetica alleanza fra Damasco e i Curdi siriani sarebbe una pietra tombale sulle ambizioni di Ankara, in quanto la priverebbe della possibilità di restare in Siria con la scusa di combattere lo Stato Islamico, che nel frattempo è sotto attacco, da parte delle SDF, proprio a Raqqa, sua capitale de facto, negli stessi giorni in cui a Mosul l’esercito iracheno, insieme alle milizie sciite che rispondono direttamente a Tehran, stanno avvicinandosi alla città vecchia, dopo averne ripreso i quartieri orientali e l’aeroporto.
Alcuni indizi fanno pensare che l’accordo fra Assad e i Curdi sia possibile. Oltre alle azioni congiunte nel corso della liberazione di Aleppo da parte dei governativi infatti, è di queste ore la notizia che reparti curdi abbiano tagliato la strada che collega Raqqa a Deir Ezzor, bastione dell’esercito siriano assediato da anni. Se confermata, questa azione sarebbe un aiuto importante ai reparti che resistono in quella città, che hanno più volte rischiato di capitolare, ma che sono sempre riusciti – l’ultima volta proprio pochi giorni fa – a tenere testa alle bande di Al Baghdadi. Pertanto, mentre l’esercito di Assad sta nuovamente cercando di strappare Palmira all’Isis, e mentre nel governatorato di Idlib, in mano ai ribelli jihadisti, è in atto una interminabile resa dei conti fra gruppi rivali, il grosso punto interrogativo riguarda il nuovo fronte che si è venuto a creare a nord di Aleppo, con i “ribelli moderati” del FSA ormai a diretto contatto con l’esercito regolare. Ci sono state scaramucce di poco conto, ma se uno dei due eserciti tentasse di sfondare, questo porterebbe quasi inevitabilmente a una guerra fra Siria e Turchia, le quali però nel contempo stanno cercando di negoziare, ad Astana e a Ginevra, una conclusione pacifica del conflitto.
E così la parola potrebbe tornare al Cremlino, alleato di Damasco (è stato l’intervento russo del settembre 2015 a capovolgere le sorti della guerra) che ha recentemente ricostruito il suo rapporto con Ankara, e che ha tutto l’interesse a stabilire una “pax russa” sull’intero Medio Oriente. Dopo che per decenni si è fatto ricorso, in quell’area, alla formula di “pax americana”, questa sarebbe una svolta non solo per la Siria, ma per il mondo intero.
Mattia Pase
1 commento
Si, momentaneamente potrebbe essere un sollievo, ma concretamente che vantaggio potrebbe averne la Siria nel passare da un padrone ad un’altro? E’ ormai chiaro a tutti che Mosca voglia fare da gendarme del medio-oriente per conto degli USA e come vassallo, accettando loro anche esplicitamente il ruolo di media potenza, senza andare a sfidare gli Stati Uniti ma in cogestione del potere planetario.