Roma, 7 gen – Quarantasei anni dopo la strage, Acca Larenzia ci fa parlare di sacro. Vile aggressione politica rimasta tutt’ora senza giustizia, punto di non ritorno della recente storia italiana. Ma, appunto, c’è molto di più. Una vicenda sulla quale – nonostante il mezzo secolo di distanza – vale ancora la pena riflettere.
Una strage senza giustizia
Franco Bigonzetti aveva vent’anni ed era iscritto al primo anno di medicina e chirurgia. Appena diciottenne invece Francesco Ciavatta, studente liceale. Come ben sappiamo siamo a Roma, nel quartiere Tuscolano. Nel tardo pomeriggio del 7 gennaio 1978 i due ragazzi insieme ad altri tre missini escono dalla propria sezione per un volantinaggio. Militanza quotidiana trasformata in carneficina da un mai identificato gruppo di fuoco comunista. Chi preme il grilletto sa come sparare: Bigonzetti muore sul colpo. Ciavatta, inseguito, viene colpito alle spalle e spirerà nel trasporto in ospedale.
La notizia si diffonde in tutta la capitale e già nella prima serata il piazzale si riempie di militanti e attivisti. Stefano Recchioni di primavere ne aveva diciannove. Un mozzicone di sigaretta gettato da un giornalista sul sangue rappreso di una delle vittime scatena un comprensibile tafferuglio. Qui un colpo – secondo diversi testimoni oculari esploso ad altezza d’uomo dalle forze dell’ordine – centra in piena fronte lo stesso chitarrista degli Janus.
Antifascismo: dall’odio all’alienazione
Di quel terribile 7 gennaio rimangono tre giovani vite sul grigio dell’asfalto. Cuori e sogni freddati dal piombo comunista – che colpì alla schiena, col favore delle tenebre – e dall’inettitudine dello Stato. La magistratura (non) fece il suo corso: con ogni evidenza uccidere un fascista non costituiva un reato poi così grave. Tre vittime, nessun colpevole. Bigonzetti, Ciavatta e Recchioni erano morti di Serie B.
In quelle stesse vie, su quello stesso piazzale oggi pomeriggio si terrà – come ogni anno – la commemorazione anche per Franco, Francesco e Stefano. Ecco, a partire da questa sera prepariamoci al circo mediatico che racconterà di preoccupanti saluti, macabre ricorrenze, residenti in ostaggio e altre scemenze varie. Questo perché nelle quattro decadi e mezzo che ci separano dai fatti di Acca Larenzia l’odio rosso si è trasformato in alienazione antifascista. Quest’ultima, imbevuta com’è di materialismo, il senso sacro di quel “presente” – per tutti i camerati caduti – non potrà mai comprenderlo.
Acca Larenzia, il sacro prima della politica
Dalle parole di chi ha vissuto quei giorni, la sezione (ancora attiva) non chiuse mai. Nonostante tutto. Già allora – sotto il tiro incrociato di una controparte prevaricante e delle istituzioni – non era più solo politica. Un’eredità davvero importante per chi oggi cammina – con un ideale senso di continuità – sulla stessa strada di Franco, Francesco e Stefano.
Militanza semplice, organica e solare, come base di partenza. Promessa interiore, per essere uomini degni del loro sacrificio – sacrum facere appunto. Ecco perché si va oltre al “semplice” ricordo dei morti. Acca Larenzia, quel sangue sull’asfalto è sacro e – continuando a citare una recente canzone – il nostro viaggio è appena iniziato.
Marco Battistini