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Poveri, infelici e in fuga dall’Italia: ecco chi siamo secondo il Censis

by Rolando Mancini
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Roma, 6 dic – “Negli anni della crisi abbiamo avuto il dominio di un solo processo, che ha impegnato ogni soggetto economico e sociale: la sopravvivenza. C’è stata la reazione di adattamento continuato (spesso il puro galleggiamento) delle imprese e delle famiglie”. Questo uno degli aspetti che emerge dal rapporto Censis sulla società italiana, che fotografa la realtà sociale come una realtà “senza fermento e dove circola troppa accidia, furbizia generalizzata, disabitudine al lavoro, immoralismo diffuso, crescente evasione fiscale, disinteresse per le tematiche di governo del sistema, passiva accettazione della impressiva comunicazione di massa”. Poveri, infelici, lobotomizzati e privi di qualsivoglia energia vitale utile a ribaltare la situazione in atto, questo parafrasando è quello che ci dice questo studio, che non si ferma qui e come ulteriore conseguenza dello sfacelo politico-sociale ci ricorda che dal 2002 al 2012 l’emigrazione italiana è più che raddoppiata. Se infatti 11 anni fa gli italiani che abbandonavano la penisola erano 50 mila oggi sono 106 mila. Solo nell’ultimo anno, dal 2011 al 2012 il fenomeno è aumentato del 28,8%. Una vera e propria fuga che sembra riportarci indietro di più di mezzo secolo.

Il fenomeno dell’emigrazione italiana è un fenomeno che viene da lontano: comincia agli inizi del ‘900 con destinazione Francia, Austria, Germania e Svizzera, intorno al 1913 si va anche negli Stati Uniti e in Argentina e così via fino agli anni ’30. “Con il fascismo il fenomeno migratorio si ridusse drasticamente” si legge sulla Treccani ed infatti nel 1934 per la prima volta il numero di emigranti italiani e il numero di italiani che tornano in patria si equivale. Il fenomeno dell’emigrazione riprende a pieno regime nel dopoguerra dove si calcola che nei 40 anni successivi alla guerra espatriarono 8.200.000 italiani, poi negli anni 80 ci fu l’inversione di tendenza e divenne l’Italia meta di emigranti.

“Non scordiamoci che anche noi siamo stati un popolo di immigrati” ci ricordano spesso media e politici. Ecco andrebbe cambiato il tempo verbale “siamo un popolo di immigrati” e il merito in parte è proprio di questo establishment che ci governa, perché nel nostro Stato non c’è una politica industriale seria, non c’è alcun investimento su istruzione e innovazione, non si fa una grande opera pubblica dai tempi del fascismo (o la Salerno-Reggio Calabria deve essere considerata grande opera?), le piccole e medie imprese pagano le tasse più alte d’Europa e le grandi aziende che nel passato avevano assorbito un numero cospicuo di operai sono oggi vendute a capitali stranieri che portano la produzione in paesi del terzo mondo lasciando a piedi migliaia di lavoratori italiani.

Quanto si verifica oggi inoltre, come abbiamo visto fotografato nello studio del Censis, non è un problema solo economico-istituzionale, ma è anche e soprattutto un problema di “carattere”, di volontà, di forza. Storicamente nei periodi di forte depressione sono nati e si sono sviluppati movimenti rivoluzionari che muovevano critiche radicali al sistema imperante, oggi tutto questo non accade, anzi il 56% della popolazione dichiara di non aver attuato nessun tipo di coinvolgimento civico negli ultimi due anni, neppure quelli di minore impegno, come la firma di una petizione. Quell’istinto molto mediterraneo della rivolta e della conquista pare sia un residuo dormiente, ora ci si limita a “indignarsi” davanti la tv o a colloquio al bar con qualche amico. Segni dei tempi.

 Rolando Mancini

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