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L’illusione del Made in Italy: cosa c’è davvero nei nostri piatti?

by Francesco Pezzuto
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Made in ItalyRoma, 6 dic – “Un maiale resta tale anche con la cravatta”, basterebbe questo antico detto popolare per smontare in un attimo i teoremi comunitari riguardo alla libera circolazione delle merci e la tracciabilità dei prodotti. Due prosciutti su tre provengono da allevamenti esteri, 57milioni di cosce di suino a fronte di una produzione nazionale di circa 24milioni. Leggi di mercato imposte prevalentemente da Germania e Gran Bretagna, ma che godono dell’appoggio di paesi con un’economia meno solida come la Spagna, la quale, grazie a una favorevole posizione geografica che le permette di importare a prezzi risibili gran parte della produzione magrebina, ha sfruttato tali regolamenti per imporsi come leader mondiale nel mercato oleario. Secondo le vigenti norme dell’Ue la tracciabilità di un prodotto alimentare parte dal luogo in cui la materia prima viene lavorata; in questo modo, per fare alcuni esempi, olive greche molite in un frantoio pugliese finiranno negli scaffali dei supermercati come olio italiano, il latte tedesco lavorato in un nostro caseificio diventerà una mozzarella campana, un maiale allevato in Belgio potrà essere lavorato in Emilia e finire sulle tavole come prosciutto di Parma. Maiali con la cravatta appunto. Mercoledì scorso Coldiretti ha indetto una manifestazione al valico del Brennero per difendere le ragioni di agricoltori e allevatori che si attengono al vero Made in Italy, e che vedono le loro aziende scivolare in una crisi sempre più profonda a causa dell’attuale ‘contraffazione legalizzata’ delle merci.

 

Un primo, importante, segnale di risveglio da parte di un settore fondamentale della nostra nazione, non solo sotto l’aspetto economico, ma anche dal punto di vista culturale e salutistico. Una protesta che ha colto nel segno e che ha toccato un nervo scoperto negli interessi di mercato, tanto da provocare una reazione scomposta da parte di Confindustria tramite Luisa Ferrarini, presidente di Assica, l’associazione degli industriali delle carni e dei salumi. La Ferrarini sostiene che “la grande distribuzione va incontro alle esigenze dei consumatori, proponendo prodotti di qualità a prezzi accessibili. Per farlo è inevitabile che le grandi aziende si riforniscano di materie prime estere, ma sono tutti prodotti lavorati in stabilimenti italiani”. Una posizione che può facilmente essere ribaltata, poiché i consumatori si adeguano alle esigenze del mercato e acquistano prodotti a prezzi che rispecchiano il loro effettivo valore; la presunta qualità viene affidata al marchio, alla confezione, alla pubblicità. Alla cravatta insomma.

 

Del resto fino a pochi decenni fa riuscivamo a produrre abbastanza da soddisfare le esigenze interne e in alcuni settori potevamo esportare la merce in eccesso. Se oggi questo sistema non appare più sostenibile non è certo a causa delle esigenze dei consumatori, quanto alle logiche distorte di un mercato globalizzato che impone scelte assurde, giustificate esclusivamente dalla sete di profitto delle multinazionali. Gli allevatori italiani sono stati costretti a pagare multe per l’eccessiva produzione di latte, mentre le industrie casearie lo importavano da Polonia e Lituania, abbiamo distrutto le coltivazioni di barbabietole finendo con l’importare lo zucchero a un prezzo triplicato rispetto a quando lo vendevamo, importiamo dalla Cina 72mila tonnellate di salsa in concentrato, equivalente al 20% della produzione interna di pomodoro fresco, maceriamo tonnellate di agrumi nostrani per consumare quelli esteri. Per arrivare al paradosso del grano: ne importiamo circa il 45%, da Canada, Usa, Ungheria, Francia, Austria, ma grazie a oculate operazioni di marketing trasformiamo tutto in pasta, pane e pizza tricolori, simboli indiscussi del Made in Italy in tutto il mondo. Lo impone il mercato, tutti in cravatta, non solo i maiali.

 

Francesco Pezzuto

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