Roma, 12 mag – Il politicamente corretto ha rotto le palle. Così come gli eufemismi e le perifrasi, le attenuazioni e gli ingentilimenti vari. Mentre usate Tripadvisor, app statunitense che vi fa sentire chef borghesi, per prenotare una cena o il periodo di relax, provate a cercare “7 ottobre – Tour del patrimonio e dell’eroismo al confine di Gaza”. A partire da 162.87 euro a cranio, in una passeggiata di 9 ore, adulti e meno adulti, dai 16 ai 99 anni, potranno godere di un “tour unico” – si legge nell’inserzione – dei luoghi della strage, arrivando a constatare di persona “quanto sia vicino a Israele il confine della Striscia di Gaza” (sfido io a trovare un confine lontano!), vedere i quartieri di Gaza finora visti solo attraverso i notiziari e partecipare a una (nuova, ma rituale) cerimonia commemorativa per ricordare chi – solo da una parte è lapalissiano! – ha perso la vita quel famigerato 7 ottobre.
Il tour nei luoghi del 7 ottobre
Tutto a bordo di una vettura climatizzata che viene a prelevarvi comodamente in hotel, senza dimenticare la sosta ristoratrice per rituali caffè e pasticcini in una panetteria locale a Sderot, acqua in bottiglia e colloquio con i soldati che racconteranno le loro esperienze (visti i numeri, di ammazzare) vissute a Gaza, ovvero al di là del confine, e con gli agricoltori, testimoni della resilienza. Incluso nel prezzo anche “una piccola pianta o un altro regalo da un vivaio nella periferia di Gaza (finalizzata a sostenerli) o candele commemorative acquistate nell’area di Gaza Envelope”. Non incluso, solo il pranzo ed eventuali mance. Come se rifocillarsi o portarsi il souvenir da un luogo di massacro sia cosa buona e giusta. Come se dopo aver visto polvere e macerie che solo per arrivare a portare via l’ultimo secchio di detriti, ci dice l’Onu, ci vorranno quattordici anni. Questi sono ormai i quartieri visti alla tivvù. Per, poi, ricominciare a dare il via a una ricostruzione. Se mai sarà possibile, visto che c’è chi già chi ha deciso (al posto loro) di “spostare” i palestinesi senza, però, parlare di diaspora o di deportazione. Senza poterne parlare, così come di genocidio e di olocausto. Siamo addirittura alla monopolizzazione, all’occupazione dei termini. È prepotenza assoluta. Pre-potenza pura. Pure.
Magari fosse tutta una bufala di cattivo gusto! Magari non prenoterà nessuno questo tour dell’orrore e della mancata dignità. Eppure, questa spettacolarizzazione da macellai è già visibile, senza necessariamente recarsi in situ. Ha già degli onorevoli spettatori che sono tutti coloro che se ne stanno in silenzio. Tutti quelli che fanno finta di non vedere perché è impossibile non sapere. Tutti quelli che hanno girato la faccia, ma non alla connivenza. Tutti quelli che nonostante tutto, nonostante questo, continuano a sostenere Israele perché Hamas è un’organizzazione terroristica e perché i palestinesi… Boh. Nonostante chi si erge a “di nuovo grande” e chi per sentirsi potente deve recarsi al Muro del Pianto, mettere la kippah e fare il vivandiere – e non parliamo di Di Maio, il che ben identifica quanto sia ancora sceso il livello– di Benjamin Netanyahu. Che “traslitterato” è Beniamino, di nome e di fatto di tanti, forse, di tutti. Persino di quelli che si riempiono la bocca di pace. Pace e basta tanto da divenire la parola più usata ultimamente. Meglio abusata, da quando si è fatto pure il Papa nuovo. Pace per presentarsi urbi et orbi dalla balconata centrale di San Pietro e pace per ogni red carpet del politico di turno. Si parla così facilmente di pace come facilmente si parla di guerra, al punto da renderli quasi concetti vuoti.
Ma la guerra non è una gita turistica
La pace, però, non è certo assenza di guerra. Non basta non inviare armi per fare la pace. A volte, non basta nemmeno una pace giusta. Ma la guerra fa troppo paura. Anzi, disturba. Persino se la fanno gli altri. Spesso per noi. Al posto nostro e a nostro vantaggio. Si preferisce (illudersi con) la pace a tutti i costi persino difronte a una bolletta del gas troppo alta. Che è come non vedere qualche video che ci arriva sul telefono e che da qualche fronte di guerra. Chiudiamo gli occhi. Giriamo la faccia. Lo farà chi andrà in tour? Riuscirà a sopportare la supponenza di questi criminali che sono l’unica democrazia del vicino Oriente? Poco importa. Non sarà migliore né peggiore di altri onorevoli occhi e di altrettante orecchie. Altre orecchie, al di là del confine, non sentiranno la parola pace. Non possono sentire la parola pace. Andate a parlare di pace a uno dei diciottomila genitori cui è stato ammazzato un figlio. Almeno uno. Se lo trovate un genitore, visto che le vittime sono 42000. Dati approssimativi e, purtroppo, ancora tristemente in divenire. 970000 i feriti. Cioè coloro senza una gamba, un braccio, la vista. Poi ci sono coloro che non si riprenderanno più psicologicamente, ma in questa conta non contano perché il loro corpo non ha subito menomazioni. E quelli che non guariranno più e moriranno. Quelli che, magari, saranno soccorsi e poi i soldati di una terra (di altri), (da altri) promessa e creata, fanno fuoco persino su un’ambulanza cui loro stessi avevano acconsentito a passare.
Questo è ciò che è successo a Hind Rajab, una bambina, messa in salvo dalla mamma fuggendo con un’auto perché l’area dove abitavano era oggetto di fitti bombardamenti, mentre la mamma con una sorella maggiore scappava a piedi. Hind è morta con altri suoi sei familiari e due paramedici autorizzati a soccorrerla perché, per tre ore – e le telefonate le abbiamo sentite tutti – chiedeva aiuto perché aveva paura del buio. Questo il modus operandi dei difensori della democrazia. Andate a parlare ai familiari superstiti della Hind di turno di pace o chiedete loro se è possibile visitare i luoghi del calvario della figlia. I vari luoghi dove è morta un poco per volta la loro bambina. Non esiste nemmeno un termine per individuare una bambina di 7 anni, se non bambina. Questo l’eroismo dei combattenti con la stella a sei punte sull’avambraccio. Questo il tour del loro orgoglio e della loro fierezza. I bambini, che non sono nemmeno soldati, ugualmente ammazzati con il loro eroismo. E quel 7 ottobre che è solo la data di “arrivo”, della nuova mancata sopportazione di un conflitto che affonda le radici indietro negli anni. E non l’inizio. Come quello del nuovo tour. Che ha un inizio e una fine. Per un altro giro. Un’altra corsa. Una nuova tappa toccata, un’altra cosa indicibile di cui sono capaci i buoni del mondo.
Tony Fabrizio