Roma, 24 mag – Lo sguardo dei cittadini. Era questa, per Nevio, la scaturigine dell’eroismo del miles romano: la possibilità di poter sostenere gli occhi severi del popolo. Uno sguardo che è rispecchiamento e che quindi non ci ridà se non la parte migliore di noi stessi. Quando, esattamente un anno fa, Dominique Venner percorreva silenzioso la navata di Notre-Dame in direzione del suo destino, su di lui si posava lo sguardo di Fabrice. L’amico, il testimone. Ma, soprattutto, il custode di una decisione.
L’incontro fra Fabrice e il mito assoluto dell’ambiente nazionalista francese era avvenuto sotto gli auspici di un’altra figura esemplare dell’ambiente non conforme transalpino: “Fu uno dei suoi più vecchi amici– ci racconta oggi Fabrice – che mi fece incontrare per la prima volta Dominique. Si tratta dello scrittore Jean Mabire. Loro si erano conosciuti all’epoca di Europe-Action. Il mio incontro con lui è avvenuto nel 1995. Io facevo parte di una associazione culturale e sportiva, gli Oiseaux Migrateurs. Un giorno Dominique Venner ci raggiunse per parlare ai nostri giovani dell’esperienza dei Corpi franchi tedeschi. All’inizio eravamo impressionati da lui, dalla sua reputazione, dal suo vissuto, ma anche dalla sua prestanza, dalla sua drittura, si può ben dire dalla sua freddezza. Ma poco a poco l’ambiente si scaldò ed egli ci mostrò l’uomo che era, un uomo rivolto verso la giovinezza carica di avvenire”.
Da lì nacque un’amicizia inossidabile, sia pur con il carattere nietzscheanamente “stellare” in cui si poteva essere amici di Venner: “Egli non faceva parte di coloro che hanno una doppia vita, quelli che mostrano un aspetto della loro personalità in pubblico e si comportano in tutt’altro modo nella vita privata. No, Dominique Venner non era certamente un uomo di questo tipo. Posso comunque raccontare un aneddoto evocato da sua moglie al 1er colloque Dominique Venner tenutosi sabato a Parigi: Venner aveva proibito l’uso delle pantofole nella sua casa. Questo la dice lunga sul suo carattere…”.
La decisione di togliersi la vita “come gesto di protesta e fondazione” ha avuto una gestazione lunga e meticolosa: “Egli non ha ‘annunciato’ apertamente la sua intenzione di darsi la morte volontariamente. O comunque non l’ha detto a me. Dominique era un uomo segreto, sottile, poco espansivo. No, per comprendere che egli stava progettando di lasciare il mondo in questa maniera occorre leggere tra le righe di certi articoli che egli ha scritto durante i due anni che hanno preceduto il suo sacrificio. A posteriori, ora che conosco l’evoluzione della sua riflessione, dopo che egli mi ha donato, prima di entrare a Notre-Dame, un documento che ne stabilisce tutta la cronologia, posso confermare che egli aveva evocato questa possibilità ai suoi figli, a sua moglie e a tre suoi fedeli camerati. Ma senza dire dove e quando”.
Per capire il ruolo che ha avuto Fabrice in quel giorno di maggio di un anno fa bisogna però fare un salto mentale non indifferente, verso ere, etiche, uomini di un’altra consistenza: “Credo di poter dire di aver avuto un ruolo dichiarato e uno sottointeso. Mi spiego meglio. Il mio primo ruolo, che costituisce la missione che egli mi diede chiaramente quel giorno, fu quella di avvertire sua moglie e i suoi figli non appena mi fossi assicurato che egli era riuscito nel suo suicidio. Non voleva che i suoi parenti lo sapessero dalla televisione. Ma conoscendo il suo interesse, direi la sua fascinazione, per il Giappone e per il mondo dei Samurai, credo di poter dire che la presenza di un amico fedele ‘obbliga’ chi ha deciso di darsi la morte ad andare fino in fondo nel suo gesto. In questo modo, egli non può più tornare indietro se non perdendo l’onore agli occhi della sua comunità. Nel tragitto che ci conduceva a Notre-Dame, egli mi parlava della necessità di essere leali e fidati fino alla fine… Spero di essere stato degno della sua fiducia poiché egli ha messo, fino all’ultimo respiro, i suoi atti in accordo col suo pensiero. Per tutto ciò che c’è da raccontare della giornata del 21 maggio 2013, permettetemi di conservare l’esclusiva per i camerati di CasaPound Italia, che mi hanno fatto l’onore di invitarmi per parlarne. Poiché ci tengo a dire che, all’indomani del sacrificio, l’atteggiamento di CasaPound è stato rimarchevole nella sua spontaneità e nella sua sincerità. Il minimo, per me, è oggi di venire a salutarli e di riservare per loro l’evocazione degli ultimi istanti di Venner, poiché oggi poche persone sono al corrente di ciò che è davvero successo in quel giorno…”.
Già, cosa è successo? Un sacrificio, una scossa, un risveglio. “Dominique Venner ha creato uno choc. Ma, come per i terremoti, l’onda d’urto non ha cessato di estendersi ed espandersi. Poiché egli ha voluto segnare gli spiriti, innescare una reazione tra i nostri compatrioti che si erano assopiti. Con alcuni fra noi ci è già riuscito. Ora, per la grande maggioranza, il risveglio arriverà, per lui era auna certezza e lo è anche per me così come per tutti coloro che si sono già risvegliati. Ma quando tale risveglio verrà, questo lo ignoriamo… Mentre aspettiamo, questa è la ragion d’essere di tutta la nostra vita”.
Adriano Scianca
(articolo pubblicato sul Foglio del 23 maggio 2014)