Trieste, 5 feb – L’effetto Europa si fa sentire ogni giorno di più. Da più di un anno a questa parte a farne le spese è una piccola azienda triestina, di proprietà dell’indiana Jindal, che però potrebbe (e dovrebbe) avere un ruolo fondamentale nell’economia del Paese. Ma andiamo con ordine.
L’Azienda
Si tratta di un’azienda composta da circa 70 dipendenti che si occupa della produzione di tubi in ghisa. Si tratta dell’unico stabilimento attivo in Italia nella produzione di tubi in ghisa sferoidale, e tra i tre più importanti in Europa al punto da renderlo un concorrente diretta dell’altro grande produttore europeo situato in Francia, la Saint-Gobain. Fino al 2012, prima dell’arrivo dell’indiana Jindal, lo stabilimento era dotato anche di una importante area a caldo che, grazie alla vicinanza alla Ferriera di Servola, produceva il tubo stesso. Il colosso indiano ha tuttavia deciso di chiudere l’area a caldo e di delocalizzare i macchinari per la fusione della ghisa all’estero, preferendo importare il tubo grezzo direttamente dall’India, il semilavorato arriva dall’India ed è sottoposto a un’ulteriore lavorazione a Trieste. Durante questa fase l’azienda ha già perso circa 136 addetti solo in minima parte ricollocati. Ad oggi, quindi, gli operai svolgono un lavoro di rifinitura del tubo che permette di avere quelle caratteristiche tali da renderlo prodotto di eccellenza a livello internazionale
Un anno fa
Circa un anno fa l’Agenzia delle Dogane aveva applicato una rigida interpretazione della nuova normativa europea in materia di “made in Italy”, impedendo così all’azienda di mettere il marchio sui tubi prodotti in India e rifiniti a Trieste. Ad ottobre tale impedimento aveva bloccato una commessa per la committenza irachena che aveva chiesto esplicitamente un’attestazione “made in Italy”. L’Agenzia delle Dogane, infatti, riteneva che i codici, utilizzati per la classificazione dei tubi, non consentissero la certificazione italiana del prodotto rendendone impossibile l’esportazione. Il caso era tuttavia rientrato grazie ad una delibera della Commissione europea che aveva riconosciuto alla Sertubi la trasformazione essenziale del prodotto effettuato in azienda, eliminando di fatto una procedura di antidumping che era stata imposta in precedenza.
La situazione idrica nazionale
Attualmente la rete idrica nazionale versa in gravi condizioni. Ogni anno nel nostro Paese ben 8,1 miliardi metri cubi d’acqua finiscono nelle reti idriche, ma solo 4,8 giungono a destinazione a causa della dispersione. Il danno economico dovuto alle tubazioni fatiscenti viene stimato in circa 5,5 miliardi di euro l’anno di cui solo 500 milioni sono relativi a procedure di infrazione per quanto concerne la rete fognaria. Le perdite nelle reti sono stimate tra il 30-40% a causa dell’obsolescenza delle tubature che per il 24% delle condotte e il 27% della rete fognaria hanno più di 50 anni. Va considerato poi che l’8% delle condotte sono state prodotte con l’amianto, e che solo la metà degli impianti di depurazione assicura un trattamento dei reflui almeno secondario (ciò significa che circa il 55% degli impianti di depurazione non riesce a decontaminare completamente le acque). Un piano di investimento relativo alla rete idrica e fognaria nazionale permetterebbe di dare lavoro a 250.000 persone per almeno 20 anni. E proprio tale ipotesi era stata prevista nel contratto di Governo Lega-Cinque Stelle nel quale viene indicato, al punto 2, che “è necessario dunque rinnovare la rete idrica dove serve, bonificare le tubazioni dalla presenza di amianto e piombo, portare le perdite al minimo in modo da garantire acqua pulita e di qualità in tutti i comuni italiani”. Ad oggi, però, nulla è ancora stato fatto.
La seconda crisi aziendale
Oggi la situazione è nuovamente minata da un’altra normativa europea che questa volta taglierebbe completamente fuori dal mercato la Sertubi. L’apposizione del marchio “made in Italy”, in questo caso, verrebbe ostacolata dal maggiore costo della materia prima indiana, rispetto alla lavorazione italiana. Detto altrimenti, secondo Bruxelles, se il prodotto importato ha avuto dei costi superiori in India, rispetto all’Italia, allora non può considerarsi prodotto italiano. Si tratta tuttavia di una considerazione errata perché se è pur vero che il costo del tubo grezzo è elevato, è altrettanto vero che la lavorazione italiana altamente specializzata lo rende un prodotto completamente diverso e di assoluta eccellenza.
Cosa serve per far ripartire la produzione
L’azienda ha assicurato la prosecuzione della produzione fino a giugno 2019, data entro la quale, se qualcosa non sarà cambiato, lo stabilimento dovrà chiudere. Fatto che risulterebbe molto gravi per almeno 3 motivi: 80 lavoratori si ritroverebbero “in strada” senza grosse prospettive stante la generale crisi del settore industriale; l’Italia non sarebbe più competitor internazionale dando alla Saint-Gobain l’opportunità di diventare, de facto, monopolista del settore; il Paese perderebbe un importante know-how poi difficile da recuperare. Per scongiurare tutto questo, servirebbe, quindi, un intervento dello Stato in grado di assicurare una produzione di almeno 8000 tonnellate di tubi all’anno che si possono stimare in commesse per circa 15-20 milioni di euro.
La possibile soluzione
Vista l’importanza degli investimenti da fare nell’ambito della rete idrica e fognaria nazionale, un’azienda come la Sertubi potrebbe tranquillamente produrre tubi di ghisa tagliando fuori il mercato privato, dedicandosi, invece, alla sola sostituzione delle tubature italiane. Questo permetterebbe di garantire per decenni la produzione di tubi, di creare migliaia di nuovi posti di lavoro e di favorire l’economia nazionale con una produzione “in casa”. Non andrebbe esclusa, quindi, una nazionalizzazione dell’azienda triestina che, con un investimento di circa 10 milioni di euro su dei nuovi forni a impatto zero sull’ambiente, riuscirebbe a produrre un tubo di ghisa 100% “made in Italy”.
La reazione dei sindacati
Michele Pepe (RSU) ha dichiarato a Il Primato Nazionale: “Vogliamo la presenza nello stabilimento del ministro Di Maio perché nel Contratto di Governo, al punto 2, ha inserito la ristrutturazione della rete idrica nazionale. Siccome siamo l’unico produttore nazionale, mi pare strano che un Ministro non si preoccupi della chiusura di questa azienda. E questa è stato messa in ginocchio da regole volute dalla Commissione europea sotto la spinta, evidentemente, di altre produttore europei. Adesso bisogna battere i pugno sul tavolo in Europa e pretendere che queste regole vengano immediatamente riviste. L’Italia non può perdere, nel silenzio e nel disinteresse generale, una parte così importante della propria manifattura”.
Francesco Clun