Roma, 11 nov – Citando una battuta di Carlo Verdone in Compagni di Scuola, sarebbe da chiedersi: “Come lo vedi Pezzali?” “Male, male”. Max ha tentato il tormentone estivo quest’estate e non gli ha detto bene, quindi dall’altezza del suo ruolo di gran visir degli anni novanta ha deciso di dedicare una canzone alla Roma di Virginia Raggi e per l’occasione s’è fatto disegnare la copertina per la canzone dal fumettista più coccolato d’Italia, Zerocalcare.
In questa città, le banalità su Roma
La canzone In questa città è una sequela di banalità in rima baciata dedicata al traffico della Capitale, tutte cose che noi romani non solo sappiamo benissimo, ma che cantiamo da almeno vent’anni. Il pezzo di Pezzali più che una dedica alla vaniglia alla Città Eterna sembra un goffo tentativo di imitazione de Il cielo sopra Roma del gruppo rap romano Colle der Fomento (uscita, appunto, nel 1999, anno in cui Pezzali cantava Grazie mille). Il cantautore, forse, ha dimenticato la provincia dalla quale proviene e che sapeva cantare nuda e cruda in tutti i suoi difetti come un Bruce Springsteen del pavese.
“Normalità del caos”
In un’intervista a Repubblica, Pezzali dice: “Ho organizzato tutto in una serie di immagini flash, per raccontare la città in tempo reale, sulla base della mia esperienza, immagini che descrivessero la gioia ma anche la fatica di vivere a Roma. I romani lo sanno, quanto è difficile fare più di una cosa in mezza giornata, tra imprevisti che bloccano tutta la città e la normalità del caos“; ovviamente, nemmeno una parola sulla (ormai riconosciuta bipartisan) disastrosa gestione della città di Roma da parte del sindaco Virginia Raggi. Dal punto di vista di un “turista” come Pezzali, il caos e la frustrazione sono tradizionali, parti del panorama, come il Vesuvio sul golfo di Napoli. Qualcuno spieghi a Pezzali che è malagestione e non c’è niente di romantico – ce ne rendiamo ancor di più conto oggi che con due gocce di pioggia la Capitale d’Italia è di nuovo in tilt.
E alla fine arriva Zerocalcare
Ma il bello deve ancora arrivare. Non bastava, infatti, un video fotocopia di altri mille video (tipo quello di In Italia di Fabri Fibra, solo a colori) in cui Max Pezzali interpreta, fasciato in un malinconico giubbetto di pelle da supergiovane che ha visto giorni migliori, l’improbabile dedica a Roma – con tanto di languore autocitazionista (tipo la frase “Roma nord, Roma sud, Roma ovest est”, richiamo ai suoi tempi ruggenti). Per rendere al meglio il suo concetto Pezzali si è fatto disegnare la copertina dal fumettista romano Zerocalcare. Che ha inserito l’ex leader degli 883 nel suo personalissimo immaginario romano, fatto di corsie della sopraelevata della Tangenziale Est, in cui gli unici romani caucasici sembrano presi pari pari da un testo di Lombroso sulla frenologia e, manco a dirlo, gli allogeni (qui rappresentati da un ragazzone di colore e da una cerbiattosa donna con l’hijab) hanno una contenuta espressione di saggezza. Che poi, a dirla tutta, pare che Rech questa volta si sia limitato a fare il tasto alt + stamp dai suoi numerosi manifesti di cortei antagonisti e di cene sociali e di raccolta fondi per i curdi e insomma tutte quelle cose lì per cui non fa che disegnare all’infinito gli stessi personaggetti, tipo Il quarto stato di Pellizza da Volpedo, ma ambientato al Pigneto.
Show must go on
Pezzali ha venduto “l’anima al diavolo”? Ma manco per niente. Si è solo adattato, come ha sempre fatto, ad un altro tipo di nazionalpopolare e a tutto ciò che è “buono” e inattaccabile – tutto ciò che è rappresentato dai vari Zerocalcare. Come lui, prima di lui, ha fatto e continuerà a fare tutto il mondo dello spettacolo italiano. Perché è, appunto, spettacolo e non cultura. Pezzali andava bene per raccontare le frustrazioni del giovane sfigato di provincia, o di quello che sbava dietro alla donna “bella vera”; mai capirebbe che coi tempi che corrono adesso metà delle sue canzoni verrebbero tacciate di mascolinità tossica e di qualunquismo. L’importante è vendere dischi, cercando di sfruttare a più non posso la nostalgia di quegli anni novanta in cui la censura dei “liberali” era roba da fantascienza.
Ilaria Paoletti