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Le basi filosofiche dell’invasione e della sostituzione di popolo

by La Redazione
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sostituzione popoliRoma, 25 nov – La Boldrini ha detto una volta che i “migranti” – che si muovono liberamente in un mondo globalizzato come i capitali e le merci – rappresentano l’«avanguardia di questa globalizzazione». Essi sarebbero addirittura l’«avanguardia dello stile di vita che presto sarà lo stile di vita di moltissimi di noi». Nomadismo, miseria e sradicamento sarebbero, dunque, il destino dei popoli europei. Si tratta – in maniera lampante – di una visione escatologica e fatalista della storia, in cui la volontà umana e la libertà storica dell’uomo si annullano di fronte alle ferree – e irreversibili – leggi del “progresso”. È, in sostanza, il ritorno al messianismo secolarizzato del materialismo storico, inserito però in un quadro valoriale spiccatamente liberale e capitalistico – una sintesi ideologica di schietta matrice egualitarista, che i più accorti definiscono “mondialismo”.

Ad ogni modo, sarebbe un grave errore pensare che le affermazioni della Boldrini siano unicamente il frutto di un buonismo retorico e superficiale. I toni da apostolato e gli sguardi allucinati della presidente della camera potranno anche suscitare ilarità e rigetto, ma non bisogna assolutamente sottovalutare i presupposti ideologici delle sue dichiarazioni. Anzi, più che di presupposti ideologici, si tratta di vere e proprie basi filosofiche – che poi la Boldrini ne sia più o meno cosciente è tutt’altra questione. In questa sede, naturalmente, sarebbe impossibile analizzare queste fonti filosofiche in maniera sistematica ed esaustiva, perciò indicheremo solo quelle che ci paiono le più rappresentative.

Il primo esempio ci viene dalla Francia, e più precisamente da Parigi, ossia dalla città europea che ha recentemente sperimentato sulla sua pelle che cosa voglia realmente dire “integrazione”. Alain Finkielkraut è un pensatore molto influente nei salotti parigini e nelle televisioni transalpine, ed è spesso ricondotto alla cerchia dei cosiddetti “nuovi filosofi”, insieme a opinion makers del calibro di Bernard-Henri Lévy. Sebbene in gioventù sia stato un acceso maoista e oggi sia fatto passare per uno di quegli intellettuali gauchistes che avrebbero operato una “deriva a destra”, Finkielkraut ha nondimeno espresso nel 2007, in un’intervista al politicamente correttissimo Le Monde, le sue opinioni sul futuro dell’Europa:

Per non escludere più nessuno, l’Europa doveva disfarsi di sé stessa, “de-originarsi”, non conservare della sua eredità che l’universalità dei diritti dell’uomo. «Vacuità sostanziale, tolleranza radicale»: questo è, secondo il sociologo tedesco Ulrich Beck, il segreto dell’Europa. Noi non siamo niente.

Il concetto è chiaro: l’Europa è portatrice di un patrimonio culturale millenario in cui, come disse Goethe, si agitano due anime. C’è l’anima “pagana”, guerriera, eroica, sovrumanista e faustiana, e c’è poi l’anima universalista di matrice cristiana e illuministica. Essendo tuttavia la prima quella veramente originaria, per poter realizzare una vera politica dell’accoglienza l’Europa dovrebbe espungere questo spirito vitalistico dalla sua eredità genetica, dando corso unicamente all’astrazione liberale dei “diritti umani”. Deve, cioè, “de-originarsi”, rinunciare alla propria origine, ossia – per dirla con Heidegger – a una possibilità di esistenza portatrice di storia e destino. Solo allorquando gli europei saranno “niente”, il Vecchio continente sarà veramente pronto all’accoglienza e all’integrazione.

Il secondo esempio riguarda invece direttamente casa nostra. Giorgio Agamben è un intellettuale colto e raffinato e, ad oggi, è senz’altro il filosofo italiano più conosciuto e influente al di fuori delle nostre mura domestiche. Già nel 1996, Agamben ha espresso le sue idee in merito ai “profughi” in una raccolta di saggi dal titolo Mezzi senza fine: note sulla politica, dopo essere diventato celebre grazie alla sua opera maggiore, ossia Homo sacer: il potere sovrano e la nuda vita (1995). I riferimenti filosofici di Agamben sono vari e sapientemente rielaborati, dal Walter Benjamin che nella Critica della violenza parlava di “nuda vita”, passando per le riflessioni di Michel Foucault sulla “biopolitica” e Carl Schmitt con il suo “stato di eccezione”, per giungere infine a Hannah Arendt.

Ed è proprio prendendo le mosse da un articolo della Arendt, dal significativo titolo We refugees (1943), che Agamben sviluppa più a fondo il suo discorso. La Arendt – spiega Agamben – «rovescia la condizione di rifugiato e di senza patria che si trovava a vivere, per proporla come paradigma di una nuova coscienza storica. Il rifugiato che ha perduto ogni diritto e cessa, però, di volersi assimilare a ogni costo a una nuova identità nazionale, per contemplare lucidamente la sua condizione, riceve, in cambio di una sicura impopolarità, un vantaggio inestimabile». Questo vantaggio inestimabile, che addirittura caratterizzerebbe una “nuova coscienza storica”, è così descritto dalla Arendt: «I rifugiati cacciati di paese in paese rappresentano l’avanguardia dei loro popoli».

Il discorso di Agamben si fa poi stringente. Egli parte dalla distinzione già greca tra zoè (la pura esistenza biologica, che il filosofo romano chiama “nuda vita”) e bios (l’esistenza specificamente politica), che ricorda approssimativamente la differenziazione tra natura e cultura, tematizzata su un piano antropo-filosofico soprattutto da Claude Lévi-Strauss. Successivamente ci spiega che «noi siamo abituati a distinguere fra apolidi e rifugiati, ma né allora né oggi la distinzione è semplice come può sembrare a prima vista». Di qui la proposta di Tomas Hammar di definire questa massa di individui come denizens, ossia residenti stabili non-cittadini.

Sostanzialmente il rifugiato, che non ha intenzione di tornare nel paese d’origine e, al contempo, ha poco interesse nel volersi assimilare a una nuova identità nazionale, non gode di pieni diritti politici e quindi è, di fatto, “nuda vita”. Tutto ciò certificherebbe la crisi irreversibile dello Stato-nazione e l’inadeguatezza dell’impalcatura ideologica dei diritti dell’uomo: «La concezione dei diritti dell’uomo – continua la Arendt – basata sull’esistenza supposta di un essere umano come tale, cadde in rovina non appena coloro che la professavano si trovarono di fronte per la prima volta uomini che avevano veramente perduto ogni altra qualità e relazione specifica – tranne il puro fatto di essere umani».

Lo Stato-nazione, che si regge sul concetto di cittadinanza formulato nella Dichiarazione del 1789, non sarebbe quindi in grado di far fronte a questa nuova realtà, poiché secondo Agamben «lo statuto di rifugiato è stato sempre considerato, anche nel migliore dei casi, come una condizione provvisoria, che deve condurre o alla naturalizzazione o al rimpatrio. Uno statuto stabile dell’uomo in sé è inconcepibile nel diritto dello Stato-nazione». Di qui le logiche conclusioni: «Se il rifugiato rappresenta, nell’ordinamento dello Stato-nazione, un elemento così inquietante, è innanzitutto perché, spezzando l’identità fra uomo e cittadino, fra natività e nazionalità, esso mette in crisi la finzione originaria della sovranità». Il rifugiato, anzi, diviene così la «figura centrale della nostra storia politica».

Agamben inoltre, rilevando con lucidità che questo stato di cose porta inevitabilmente fenomeni di intolleranza e di conflittualità sociale, avanza la sua proposta: «Prima che si riaprano in Europa i campi di sterminio (il che sta già cominciando ad avvenire) [sic!], è necessario che gli Stati-nazione trovino il coraggio di mettere in questione il principio stesso di iscrizione della natività e la trinità Stato-nazione-territorio che in esso si fonda».

Potremmo guardare all’Europa non come a una impossibile “Europa delle nazioni”, di cui già si intravede a breve termine la catastrofe, ma come uno spazio aterritoriale o extraterritoriale, in cui tutti i residenti degli Stati europei (cittadini e non-cittadini) starebbero in posizione di esodo o di rifugio e lo statuto di europeo significherebbe l’essere-in-esodo (ovviamente anche immobile) del cittadino. Lo spazio europeo segnerebbe così uno scarto irriducibile fra la nascita e la nazione, in cui il vecchio concetto di popolo (che, com’è noto, è sempre minoranza) potrebbe ritrovare un senso politico, contrapponendosi decisamente a quello di nazione (che lo ha finora indebitamente usurpato).

È questo dunque il “nuovo concetto di popolo” di cui le masse di immigrati rappresenterebbero l’avanguardia: «Solo in una terra in cui gli spazi degli Stati saranno stati in questo modo traforati e topologicamente deformati e in cui il cittadino avrà saputo riconoscere il rifugiato che egli stesso è, è pensabile oggi la sopravvivenza politica degli uomini».

Ora, che l’ordinamento dello Stato-nazione, e il concetto di cittadinanza che ne è alla base, sia in crisi lo si ripete oramai da diversi decenni. Quest’anticaglia etica e istituzionale sarebbe sì irreversibilmente in crisi, ma non vuole proprio saperne di morire. Mi viene in mente l’esempio dell’Impero bizantino che, a seguito della caduta dell’Impero romano d’Occidente, avrebbe vissuto – secondo una certa vulgata pseudostorica – una decadenza di… ben mille anni!

È chiaro che l’impalcatura dello Stato-nazione, nell’epoca dei “grandi spazi” e degli “imperi continentali”, si mostra inadeguata nell’affrontare le sfide del terzo millennio, come già avevano notato diversi esponenti della cultura novecentesca non conforme. Tuttavia, che si debba per forza assistere, come Agamben e la Boldrini vorrebbero, a una «definitiva emancipazione dalle nozioni ingenue di popolo e di cittadino», è tutt’altro che scontato. A meno che non si voglia continuare a sostenere l’esistenza di un piano metafisico del corso storico (il “progresso”), buttando definitivamente nell’immondezzaio filosofico Kant, Nietzsche, Gentile e Heidegger, per tacere di altri filoni culturali cari al pensiero egualitarista.

Bisogna tuttavia sforzarsi di capire i reali termini della questione. Quando Agamben parla di zoè e bios, egli sta parlando di quella che lui chiama la “frattura biopolitica fondamentale”. Questo vuol dire che l’uomo – uscendo dalla mera natura di specie animale (la “nuda vita”) ed entrando nella dimensione storica (dimensione specificamente umana) – ha consumato questa frattura originaria. L’uomo ha così costruito sé stesso, ha fondato popoli, città, nazioni, imperi: ha smesso cioè di essere un animale per proiettarsi in un destino di umana grandezza. Con i loro piani decostruttivisti, Agamben e i corifei della “fine della storia” vorrebbero esattamente ricacciare i popoli (concetto “ingenuo”!) nella mera esistenza di specie.

Ora, gli immigrati rappresentano in questo senso delle vere “avanguardie”, perché sono individui sradicati senza più origine né destino. Si prestano così perfettamente al progetto storico elaborato dall’ideologia mondialista che, per realizzare i sogni del capitalismo globale, deve trasformare i popoli storicamente determinati in masse amorfe di consumatori. Obiettivo principale di questo attacco planetario sono esattamente i popoli europei, proprio perché essi portano con sé – nella loro eredità originaria – una radicale possibilità di esistenza storica, che è geneticamente irriducibile all’egualitarismo oggi trionfante.

Solo se gli europei saranno in grado di trasmutare questa eredità latente in un nuovo progetto storico, ovvero se riusciranno a tradurre la loro tradizione in rivoluzione, e se riusciranno a riconcepire un destino imperiale (P. Sloterdijk), solo allora l’uomo potrà essere qualcosa di più di un animale o di un codice a barre. Entrambe le prospettive sono possibili. Tutto dipende dalla volontà umana, da una decisione specificamente umana. Come aveva ben compreso Giorgio Locchi, i popoli europei si trovano oggi di fronte a una decisione epocale: fine o rigenerazione della storia. O consumatori ruminanti o signori del nostro destino. Tertium non datur.

Valerio Benedetti

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3 comments

Marzio Dal Monte 25 Novembre 2015 - 1:58

Ottimo articolo ed ottima analisi, sarebbe da diffondere il piu’ possibile e farlo arrivare ad un’utenza delle piu’ grandi.

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nota1488 25 Novembre 2015 - 3:10

La scelta definitiva, per chi si vuole opporre a tutto questo è tra Nazionalismo Etnico e Nazionalismo Civico, deve essere una scelta definitiva e senza mezzi termini, chi temporeggia e si astiene è perduto.

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Franco 26 Novembre 2015 - 10:05

Mi viene un dubbio. Non sarà mica che questi intellettuali sono tutti una manica di imbecilli ?

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