Lucca, 25 nov – Il Nepal è stato storicamente una regione inaccessibile. Rimasto autonomo nonostante la pressione cinese sul Tibet e quella inglese sull’India, ha conservato intatta per anni la propria anima, in conseguenza alla chiusura imposta dalla dinastia Rana. Nonostante l’apertura degli ultimi decenni, alcune zone del paese risultano ancora precluse. La regione di Manaslu era una di queste, aperta al turismo straniero solo nel 2001, così rendendo accessibile l’Himlung Himal, montagna di 7126 metri fra Nepal e Tibet, a nord est della catena dell’Annapurna. Questa protratta chiusura consente ora di rivivere sui suoi versanti l’alpinismo di venti, trenta anni fa.
Di ritorno dalla sua scalata incontriamo Riccardo Bergamini, alpinista lucchese con alle spalle, fra gli altri, il Peak Lenin (7134 m) in Kirghizistan e il Cho Oyu (8201 m) in Tibet, scalato senza l’uso di ossigeno supplementare. Anche in quest’ultima occasione è riuscito ad arrivare in vetta, nonostante il tempo avverso che ha fatto desistere gli altri pretendenti.
Raccontaci di quando è nato il progetto di scalare l’Himlung Himal e della tua preparazione.
Ho preso la decisione circa all’inizio dell’anno, anche se il terremoto che ha colpito il Nepal ad aprile mi ha fatto pensare per un attimo di cambiare i miei piani. Se le notizie sulla zona della capitale, Kathmandu, erano rintracciabili facilmente, sulla rotta che dovevo seguire io c’erano delle incognite. Il rischio era quello di trovare aree inghiottite dal sisma e passaggi impossibili da superare.
Fortunatamente è andata bene, nel senso che ho dovuto affrontare solo le difficoltà ‘fisiologiche’, in particolare gli spostamenti di ore e ore con le jeep su strade scavate nella roccia, letteralmente rubate alle montagne. Si tratta di viaggi al limite del folclore, con mezzi a cui si rompe sempre qualcosa, strapieni di gente. Le persone vengono attaccate addirittura fuori. Chi si sente male infatti viene spedito fuori dall’abitacolo, dove rimane appeso, raschiando anche le pareti rocciose in cui si passa.
Per quanto riguarda la preparazione, non ho fatto niente di speciale rispetto alla mia solita attività. Questa è bastata a garantirmi un allenamento adeguato per affrontare la scalata.
Qual è stato il tuo approccio alla scalata?
Lo stile che prediligo è quello alpino. Salgo velocemente, con pochi campi di appoggio, arrivo in cima e torno giù prima che il corpo inizi a subire gli effetti dell’altitudine. Quando sono in Italia questo significa, per esempio, partire da Lucca prima dell’alba in direzione Monte Rosa, arrivare in vetta e la sera essere nuovamente a casa.
In Nepal, questa volta, ha significato stare un giorno al campo base (4800 m), poi salire a montare il campo 1 (a 5465 m) – dove si fa ‘deposito’, cioè si lascia l’attrezzatura per il campo alto – e riscendere a dormire al campo base. Riposare un giorno al campo base, poi tornare al campo 1 e dormirci.
Avendo dormito bene, sono poi subito salito a montare il campo 2 (6100 m) – dove si lascia il materiale che servirà per la vetta – e poi sono tornato al campo 1 per dormire (dopo i 6mila metri si dorme male ed ho preferito riposare bene). Sono quindi tornato al campo base: per me era finito l’acclimatamento. Sarei tornato al campo 2 per tentare la vetta. E dopo aver riposato qualche giorno, sono tornato infatti a dormire al campo 1, il giorno dopo al campo 2 e di lì sono partito la notte per la cima della montagna.
Le tue dita spellate dicono che arrivare in vetta non è stata comunque una passeggiata…
Sono le dita che ho dovuto nascondere allo sherpa, per evitare che mi impedisse di arrivare in cima (ride). Le condizioni meteorologiche dovevano essere perfette stando a quanto ci avevano detto al campo base. Invece il freddo era maggiore del previsto, a causa anche del vento. In vetta si sono toccati i -40 e per questo salendo le dita mi si erano scurite. Lo sherpa indagava le mie condizioni, ma visto che battendole addosso tornavano rosse, ero sicuro di non rischiare il congelamento. Nei giorni successivi ho perso la pelle, ma il peggio è stato evitato.
Al ritorno dalla vetta invece abbiamo trovato una vera e propria bufera, che poi è durata due giorni. Sono state ore lunghe, scendendo su neve ghiacciata dove cascavamo ogni dieci metri. Tutto reso ancora più duro dalla stanchezza accumulata, se si considera che eravamo partiti alle due del mattino e siamo rientrati quasi alle otto di sera. In più non abbiamo potuto nemmeno mangiare niente, perché addosso si era congelato tutto: cibo, bevande e…barba.
Hai temuto di non farcela a rientrare?
Eravamo in due, ed ero certo che uno sarebbe stato in grado di avvertire, nel caso, i soccorsi. In Nepal sono organizzati e c’è un ottimo sistema di elisoccorso. Fra l’altro lì opera anche Maurizio Folini, elicotterista e guida alpina valtellinese, che nel 2013 ha effettuato il recupero da record a 7.800 metri.
Questo tempo ha fatto selezione. Eravate partiti in trenta e siete arrivati solo tu e lo sherpa.
Sì è vero, nonostante altri avessero fatto tre campi di avvicinamento, mentre noi solo due e il secondo era inoltre tremendamente lontano. Ci siamo fatti almeno un’ora in più. Quel giorno una trentina di persone hanno provato a raggiungere la vetta e solo un francese è arrivato a 100 metri dal traguardo, dove però è crollato. Lì gioca, oltre alla condizione fisica, quella mentale.
Quando sei tornato al campo base cosa hai pensato?
Che fosse un hotel cinque stelle. Nonostante la nevicata sono riuscito pure a farmi una doccia. A cena sapevo che mi aspettava il ‘premio’ per aver raggiunto la vetta: torta e birra. Vero oro, dopo aver mangiato praticamente solo neve sciolta.
Qual è la prossima meta?
Devo ancora decidere. Ma qualcuno mormora Everest…
Simone Pellico