Roma, 7 mag – Mentre gli occhi del mondo sono puntati sull’Ucraina e sull’imminente occupazione israeliana della Striscia di Gaza, una crisi potenzialmente catastrofica si è accesa nel cuore dell’Asia. Nella notte tra martedì e mercoledì, l’India ha condotto una serie di attacchi missilistici contro nove obiettivi terroristici nella regione del Kashmir amministrata dal Pakistan. Secondo Nuova Delhi, si è trattato di un’azione preventiva per sventare nuovi attentati in preparazione, dopo che un attacco il 22 aprile scorso ha causato la morte di 26 turisti nella regione storicamente contesa.
Kashmir, una lunga storia di violenza
Quello di questi giorni è solo l’ennesimo capitolo di sangue nella tormentata storia del Kashmir, territorio conteso tra India e Pakistan fin dal 1947, anno della Partizione. La regione è stata teatro di quattro guerre aperte tra le due potenze: nel 1947-48, nel 1965, nel 1971 e infine nel 1999, durante il conflitto di Kargil. Tuttavia, la violenza non si è mai interrotta, alimentata da gruppi estremisti che chiedono l’indipendenza dal governo indiano o l’unione con il Pakistan. Dal 1989 a oggi, il terrorismo locale ha colpito duramente i civili, in particolare turisti, pellegrini e minoranze religiose. Solo nel 2023, un attacco a un autobus di pellegrini hindu diretti al tempio di Shiv Khori ha causato 10 morti e 33 feriti. Episodi simili si sono verificati nel 2017 ad Anantnag e più volte nei primi anni 2000, con centinaia di vittime. Il contesto si è ulteriormente aggravato con il governo Modi, che nel 2019 ha revocato l’autonomia speciale del Kashmir (articolo 370 della Costituzione), dividendo l’area in due territori federali: Jammu e Kashmir a sud-ovest, e Ladakh a nord-est. Anche le forze armate sono state spesso bersaglio: basti ricordare l’attacco di Pulwama nel febbraio 2019, in cui morirono 40 soldati indiani, al quale Nuova Delhi rispose con un raid aereo su Balakot, in territorio pakistano. Ancora prima, nel 2016, un attacco jihadista al campo militare di Uri aveva causato 19 morti tra i soldati indiani, portando a un’escalation sfiorata solo grazie alla mediazione internazionale. Il Kashmir è a tutti gli effetti uno dei punti più instabili del pianeta, dove la linea tra conflitto convenzionale e guerra nucleare è più sottile che mai. Ed è proprio in questo contesto che l’India tenta oggi di reagire con fermezza, ma anche con razionalità strategica, evitando di cadere nella trappola della guerra permanente.
Il Pakistan, alcune considerazioni oltre la questione del Kashmir
Quello in corso in queste ore è senza dubbio lo scontro più violento degli ultimi 20 anni. Islamabad, com’era prevedibile, ha reagito parlando apertamente di “atto di guerra” e ha autorizzato una rappresaglia militare “congruente”, appellandosi all’articolo 51 della Carta dell’ONU. Gli scontri lungo la Linea di Controllo (il confine de facto nel Kashmir) sono in corso. Le vittime civili sono numerose su entrambi i fronti: tra le 26 vittime pakistane, anche donne e bambini colpiti durante un raid a Bahawalpur. L’India segnala otto morti e decine di feriti a causa della risposta pakistana. Ma per non scivolare negli schematismi infantili, servono alcune precisazioni che raramente trovano spazio nei media generalisti. Prima su tutte, una considerazione fondamentale: il Pakistan è da sempre un paese-ponte usato da potenze esterne. Islamabad non è mai stata priva di sponsor strategici: gli Stati Uniti, la Cina e l’Inghilterra vi giocano da decenni, ciascuno per i propri fini. Washington lo ha usato come base di contenimento per l’Afghanistan; Pechino ne ha fatto un corridoio per il suo progetto della Nuova Via della Seta; Londra mantiene solidi rapporti con l’élite militare e finanziaria pakistana. Ma al cuore del potere pakistano c’è un attore spesso sottovalutato: l’ISI, il servizio di intelligence militare, considerato la vera arma strategica del Paese. Più che una semplice agenzia di spionaggio, l’ISI è uno Stato nello Stato, con influenza diretta sulla politica interna, sulle alleanze regionali e soprattutto sulla gestione dei gruppi jihadisti attivi nel Kashmir e nelle aree tribali. In passato, numerose inchieste e analisi – anche di fonte occidentale – hanno documentato il legame operativo tra l’ISI e formazioni estremiste come Lashkar-e-Taiba e Jaish-e-Mohammed, utilizzate come strumenti di pressione contro l’India, in una guerra a bassa intensità che dura da decenni. Non dimentichiamo che solo pochi mesi fa si è consumato un duro scambio di missili tra Pakistan e Iran, a conferma di una instabilità cronica in cui l’islamismo radicale è tutt’altro che marginale e anzi appare spesso strumentalizzato dalle stesse strutture statali.
L’India e la via del multiallineamento
In questo quadro, l’India si muove in modo radicalmente diverso. Pur essendo rivale strategica della Cina, Nuova Delhi non ha mai scelto di inginocchiarsi al cosiddetto “Occidente”, né si è fatta tirare per la giacchetta da Mosca. Il governo Modi ha definito e difeso una strategia di “multiallineamento”, ovvero l’idea che uno Stato sovrano scelga i propri alleati a seconda dei contesti e dei propri interessi, e non secondo gli schemi imposti da Washington, Bruxelles o Pechino. Non si tratta di “multipolarismo” come lo raccontano gli apologeti del Cremlino, ovvero una riedizione caotica della Guerra Fredda dove ci si schiera per simpatia o per riflesso ideologico. L’India ha relazioni energetiche con la Russia, commerciali con l’Occidente, tecnologiche con il Giappone e strategiche con l’ASEAN. Non è prassi caotica, ma lucida volontà di non subordinarsi alle rivalità polarizzanti. Questa postura strategica si accompagna a una visione ultranazionalista e identitaria dell’India, portata avanti con determinazione dal governo Modi. Il nazionalismo indiano oggi non è solo geopolitica, ma anche riscoperta culturale, orgoglio etnico e rivalutazione delle radici vediche del Paese, in opposizione tanto al colonialismo britannico quanto all’occidentalismo liberal. In questo contesto, il rafforzamento dell’identità hindu viene sostenuto anche da iniziative educative e sanitarie ispirate a modelli tradizionali, in nome di un ritorno a pratiche ayurvediche e visioni tradizionali della salute e della genetica, che nel contesto indiano assumono connotati identitari più che eugenetici, svincolate dalla decadenza relativista dell’Occidente. Non si tratta solo di provocazioni ideologiche, ma di una visione alternativa del mondo, che respinge tanto la globalizzazione post-moderna quanto la subordinazione ai blocchi di potere. Per questo, l’India di oggi rappresenta un modello di sovranità senza complessi, che l’Europa – svuotata, vassallizzata e priva di direzione – farebbe bene a osservare con attenzione.
Un esempio e un alleato: l’India oltre i blocchi
In questa crisi, l’India non è soltanto una potenza responsabile che evita accuratamente lo scontro tra blocchi, ma rappresenta anche un esempio per l’Europa su più livelli. Geo-storicamente, è una civiltà millenaria che non ha mai rinnegato la propria identità, né ha assunto quell’atteggiamento post-colonialista o relativista che spesso ha caratterizzato altri attori globali usciti fuori dai processi d’indipendenza. Culturalmente, l’India rispetta la tradizione europea, la sua classicità e la sua storia: non è un caso se Gandhi stesso si ispirò all’idea di ordine e virtù dell’antica Roma (spesso accusato di Fascismo in Occidente), e se oggi Modi celebra figure come Chandra Bose, simboli di una sovranità nazionale intransigente. Ma oltre al piano simbolico, che ha certamente valenza in un mondo di metanarrazioni, c’è quello concreto e strategico. L’India è oggi uno dei principali partner dell’Italia, con cui ha firmato nel 2023 accordi quinquennali di cooperazione energetica e tecnologica. I due Paesi collaborano su energia rinnovabile, idrogeno verde, digitalizzazione e formazione industriale. L’Italia, del resto, ha bisogno di partner autonomi, stabili e non ostili alla sua civiltà: Nuova Delhi rappresenta una piattaforma perfetta per un’azione comune euro-mediterranea, fuori dai riflessi condizionati delle guerre altrui. In un’epoca di blocchi forzati e vassallaggi culturali, l’India mostra che è possibile essere sovrani, moderni e radicati, senza cedere all’omologazione. Un modello da osservare, ma anche un alleato da coltivare con lucidità e visione.
Sergio Filacchioni