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Banche, stagnazione e lavoro: che 2017 sarà

by Filippo Burla
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italia recessione coronavirus

occupazione lavoro 2017Roma, 1 gen – Arrivati alle soglie del decimo anno dal fallimento di Lehman Brothers nel 2008, data che con tutti i suoi limiti rappresenta l’inizio “convenzionale” della crisi ancora in corso, stretti fra speranze o promesse di ripresa possiamo individuare la linea di quello che sarà l’anno venturo? Al pari delle previsioni del tempo, anche quelle economiche spesso lasciano il tempo che trovano. Sono tante, forse troppe le variabili, sia interne che esterne, con le quali bisogna confrontarsi per delineare un quadro il più vicino possibile alla realtà. Alcune di queste variabili emergono tuttavia più di altre, fungendo da indicatori più o meno affidabili per capire da che parte tirerà il vento e su come potrà evolvere il 2017 appena iniziato.

Banche

Croce e delizia della storia e dell’attualità italiana. Da fondatori delle prime banche nella storia a osservati speciali per la crisi di settore, con la banca più antica del mondo – Monte dei Paschi di Siena – sulla graticola. La situazione degli istituti di credito della penisola è ben lungi dall’essere risolta, stanti i quasi 200 miliardi di crediti deteriorati con i quali le banche tricolore tutt’ora devono fare i conti. MontePaschi è solo la punta dell’iceberg di un sistema che, nonostante le rassicurazioni del ministro dell’Economia di turno, è tutto tranne che solido.

Non basteranno, per metterlo in sicurezza, la manciata di euro del fondo Atlante e nemmeno i venti miliardi stanziati di recente per la nazionalizzazione di Mps. Basti pensare che Unicredit, alle prese con la terza ricapitalizzazione in pochi anni, dopo aver chiesto al mercato 7 miliardi fra 2008 e 2009 è di nuovo pronta a far capolino per raccogliere qualcosa come 15 miliardi di euro. Se queste son le cifre in ballo, altro che l’omeopatia varata dal governo.

Ammesso, peraltro, che l’intervento pubblico possa servire. Perché qui il problema non è di pur discutibili scelte gestionali, ma ben più grande. Ed è correlato alla mancata crescita, senza la quale la massa di crediti incagliati senza rimborso è destinata solo che a crescere.

Stagnazione

E veniamo così al secondo punto, vale a dire l’agognato segno positivo davanti ai conti nazionali. Che ci sia è indubbio, negarlo sarebbe fare un torto alla matematica. Quanto si può parlare di crescita, però? Tanto quando il valore prima della virgola: zero. Perché non possiamo nasconderci: fin tanto che le percentuali saranno da prefisso telefonico forse saremo usciti dalla recessione, ma per approdare nella migliore delle ipotesi in stagnazione. Di crescita minima, degna di questo nome si può parlare solo a partire da un robusto +2%, sotto questo valore si rischia di cadere nell’errore statistico e di vivacchiare senza alcuna prospettiva.

Come andrà nel 2017? L’andazzo di questi anni permette di mettere nero su bianco una certezza: le previsioni di inizio anno vanno sempre prese con le molle, la revisione in itinere è sempre dietro l’angolo. Se tanto mi dà tanto, entriamo in quest’anno con l’Ufficio parlamentare di bilancio e Banca d’Italia che rispetto a qualche mese fa hanno già ridotto le stime, portandole al di sotto dell’1%, che se non altro è soglia psicologica. Da qui a dicembre dovremo aspettarci ulteriori limature al ribasso? Probabile.

Lavoro

Senza crescita non respirano le banche, ma nemmeno il lavoro. Se poi la domanda interna langue, schiacciata dall’austerità necessaria per salvare la zona euro (e i crediti delle banche tedesche), allora giocoforza gli imprenditori non assumono. E non lo fanno perché non possono (meglio: non potevano) licenziare agevolmente ma perché, senza prospettiva di vendere, produrre è un controsenso. Ecco spiegato il fallimento del Jobs Act: risolvere una crisi di domanda riformando il lato dell’offerta non poteva che avere risultati pressoché nulli. Meglio, molto meglio è andato per gli incentivi, poi non rinnovati facendo crollare le nuove assunzioni. Il governo continua però a fare a pugni con la realtà, confermando Poletti alla guida del ministero del Lavoro e proseguendo sulla strada intrapresa della maggiore precarizzazione la quale non ha creato un posto di lavoro in più. E nessuno ne creerà nemmeno nel 2017.

Filippo Burla

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