Se la gioventù le negherà il consenso, anche l’onnipotente e misteriosa mafia svanirà come un incubo.
Paolo Borsellino
Roma, 19 lug – Non si capisce per quale strano motivo, gli eroi italiani sarebbero sempre delle eccezioni a dispetto di un popolo di codardi, incapace di lottare e di compiere sacrifici. Al contrario, gli eroi stranieri rappresenterebbero – sempre in base a una fantasiosa tesi autorazzista ma in fin dei conti soprattutto stupida– i popoli e le culture che li hanno prodotti e generati. Così se una Giovanna d’Arco o un Napoleone Bonaparte sono simboli di una Francia (medievale o moderna conta poco) che lotta per la propria affermazione nazionale (o che la estende, come nel caso del generalissimo), in epoche completamente diverse un Enrico Toti, un Nazario Sauro, un Benito Mussolini (sì, Mussolini) un Enrico Mattei, un Paolo Borsellino o un Giovanni Falcone sarebbero non il frutto della propria società – e quindi, anche dei sentimenti genuini che essa esprime – ma delle sottospecie di alieni avulsi da qualsiasi condizionamento proveniente dalla propria terra, delle storie parallele che nulla hanno a che fare con la realtà che li circonda. Il 19 luglio del 1992 fa moriva uno di questi eroi, Paolo Borsellino appunto: un uomo a cui i sedicenti “autocritici” non sono degni nemmeno di allacciare le scarpe, oltre che soltanto di immaginare di appartenere alla medesima stirpe.
Borsellino è l’eroe che illumina il popolo
Insomma, gli eroi, banalmente e per ogni popolo che abiti questo pianeta, sono eccezioni. Nessuno può pretendere dall’uomo comune esattamente gli stessi slanci e gli stessi atti. A volte non si possono pretendere nemmeno azioni ben più modeste. L’eroe, spesso, diventa tale perfino per caso, senza esserlo mai stato prima. Non è certamente situazione che riguardi tanto Paolo Borsellino che Giovanni Falcone, ovviamente, il cui attivismo contro Cosa Nostra è durato anni di militanza e di servizio senza mai arretrare di un millimetro. Tuttavia la casualità, il fato o chiamatelo come vi pare non può mai essere escluso: si pensi, banalmente, a come è morto Fabrizio Quattrocchi. A volte è una luce, una scintilla che illumina. Quella degli eroi passati.
I neocatecumenali cattolici, discutibili per molti versi, su questo tema hanno una visione abbastanza condivisibile: l’uomo comune viaggia nell’ordinarietà e spesso nella mediocrità, ma l’uomo di fede, il santo, con la sua luce, gli dà motivo di speranza, di crescita, di miglioramento, anche nei piccoli gesti, nelle piccole questioni quotidiane. Sebbene in questa sede non si parli di santi ma di eroi, il concetto rimane. Perché l’umiltà è anche questa. Tanto per il cittadino comune che per l’eroe. Falcone e Borsellino, verso il loro popolo, non solo hanno prestato un servizio alla Patria, ma si sono dimostrati ciò che molti dei sedicenti predicatori che ne infangano il nome e le gesta non sono neanche in grado di poter simulare: umili.
Cultura antimafiosa
Si sente troppo spesso nominare, riguardo il popolo italiano, il concetto di “mentalità mafiosa”. Come se la mafia fosse un’esclusività italiana, nonostante storia e contesto sia attuale che passato dicano ben altro: esistono dei Paesi, tra cui certamente figura l’Italia, in cui si è sviluppata nel tempo una società afflitta dal problema della criminalità organizzata: basti pensare al Giappone, alla Cina, o alla stessa Russia (senza contare gli Stati Uniti dove però i fenomeni sono stati direttamente importanti dall’Europa).
Se la dovessimo porre sul banale prodotto sociale, in altri Paesi come lo stesso Giappone la mafia è stata addirittura “istituzionalizzata”, eppure tutti passano come più “lindi e puri” dell’infame e corrotto “popolino italico”. Il quale, con tutti i suoi limiti, questa mafia, almeno di principio e se si parla di cultura ufficiale, non la accetta e non la avalla. Non lo ha fatto con Cesare Mori, non lo ha fatto con Falcone, con Borsellino e con l’era del maxiprocesso. Nonostante limiti ancora più grossi, non la avalla di principio nemmeno nel tempo presente. Questo per sottolineare un aspetto che dell’Italia nessuno dei cosiddetti critici considera mai: ovvero la sua incontestabile cultura antimafiosa, fatta di rifiuto netto anche solo dell’idea della mafia. Una cultura che nasce – questo è ovvio e palese – sulla scorta di un problema nazionale enorme, con cui si convive, ci si arrende, talvolta si lotta e spesso si perde. Ma le cui vittorie illuminano sempre la gente comune a fare meglio, a dare sé stessi, a cercare una speranza e una voglia di vivere superiore. Chi ritiene che Falcone e Borsellino siano “altra cosa” dal popolo che ha dato loro i natali, semplicemente non ha nessuna voglia di seguirne l’esempio e di provare, nel proprio piccolo, a migliorare la vita di questa povera Nazione. L’unico interesse che lo anima è puntare l’indice, moralizzare, deprimere gli altri più di quanto egli stesso non sia già depresso e morto dentro.
Il consiglio per questi tristi – oltre che loschi – cadaveri ambulanti (e purtroppo, anche parlanti) è sempre il solito: ci sono tanti altri Paesi di cui la presunta purezza d’animo sarà senz’altro meglio accetta rispetto al nostro. Si impegnino a fare le valigie, ad andare altrove e a non tornare mai più. Noi preferiamo vivere e combattere per la nostra terra, senza pensare ai risultati e alle disfatte, ma continuando imperterriti, fino all’ultimo giorno della nostra esistenza, a fare del nostro meglio per salvarla o quanto meno migliorarne le sorti. Per produrre la migliore gioventù possibile, la stessa che il nostro eroe, Paolo, ci ha indicato di formare ed educare.
Stelio Fergola