Roma, 14 set – Nelle scorse settimane c’è stato un incendio in uno dei depositi della Cineteca Nazionale gestita dal Centro Sperimentale di Cinematografia. Cineteca che custodisce un patrimonio di pellicole spesso uniche e non ancora digitalizzate. La notizia dell’incendio e della perdita di rulli relativi a 220 tra film, documentari e cinegiornali è stata cavalcata dalla stampa come il solito esempio dell’inedeguatezza della classe dirigente di destra. D’altronde anche al CSC è stato applicato lo spoil system di cui è stato attivo fautore l’ormai ex ministro Sangiuliano. Pure al Centro Sperimentale di Cinematografia è andato un nome non certo ascrivibile alla destra meloniana: da undici mesi il presidente del CSC è il regista e attore Sergio Castellitto.
L”incendio e le polemiche
Nonostante l’essere un pezzo da novanta del cinema italiano non ha salvato Castellitto dal turbine delle polemiche. Ma come sottolineato dallo stesso regista nel nel comunicato stampa del CSC, questi incendi non sono una novità (purtroppo), ma semplicemente facevano, eufemisticamente, meno notizia quando ai Beni Culturali c’erano altri ministri: «Sono stato anche immediatamente informato di quattro incendi verificatisi in cellari e container della Cineteca, precisamente in data 18 giugno 2009 (446 rulli persi), 27 ottobre 2009 (4 rulli), 8 luglio 2015 (893 rulli), 8 agosto 2018 (40 rulli), sotto la gestione di illustri Presidenti che mi hanno preceduto su questa prestigiosa poltrona. Avendo imparato la lezione di un maestro del giornalismo d’inchiesta, Walter Tobagi, ho cercato negli archivi di agenzie di stampa, quotidiani, siti Internet, qualche riferimento, ma nulla è emerso: evidentemente fino al 2018 queste non erano considerate notizie rilevanti…»
Qui finisce la cronaca di una vicenda finita rapidamente in secondo piano nella calda estate italiana del Ministero della Cultura, viste le storie più pruriginose e spendibili in prima serata.
La perdita di Camicia nera
Eppure nella lista delle pellicole bruciate c’è un titolo che colpisce se non altro sul piano simbolico in un momento in cui da sinistra (e non solo) si continua a gridare al pericolo fascista. Tra i rulli di celluloide altamente infiammabile bruciati c’era anche Camicia nera di Giovacchino Forzano, una delle opere più celebri (o se non altro famigerate) del cinema del Ventennio. Il film del 1933 che contende a Vecchia guardia di Alessandro Blasetti del 1934 il titolo di film più fascistissimo della storia della cinematografia fascista.
Il fatto che proprio quel film sia bruciato (chissà se una copia o il negativo originale) in questa calda estate italiana dove si continua a gridare al fascismo ha un che ironico. Soprattutto in una calda estata italiana dove alla Mostra del Cinema di Venezia (che per quest’anno ci risparmia il mea culpa sulle sue origini fascistissime e i tentativi di cancel culture sulla Coppa Volpi tentati qualche anno orsono) si continua a sfruttare il Fascismo e il fantasma di Mussolini. A Venezia ha debuttato l’adattamento di uno dei campioni dell’antifascismo contemporaneo, ovvero la serie tratta dal primo volume della trilogia scuratiana, dove il Mussolini di Luca Marinelli gigioneggia e sfonda la quarta parete interagendo con gli spettatori tra il Deadpool di Ryan Reynolds e il presidente Underwood di Kevin Spacey in House of Cards.
Forzano, autore geniale
E la scelta della rottura della quarta parete non sarebbe certo dispiaciuta a Giovacchino Forzano, cineasta più geniale e innovativo di quanto l’oblio successivo gli riconoscerà. Come nel film successivo a Camicia nera, ovvero Campo di Maggio, il film del 1935 che vanta un certo Benito Mussolini come soggettista. Il film sui Cento giorni di Napoleone fu tratto dall’opera teatrale omonima firmata da Forzano con la collaborazione del Duce. Il film è caratterizzato da una fulminante apertura con le gambe delle ballerine impegnate a danzare sui tavoli del Congresso di Vienna là dove i nemici di Napoleone sono impegnati a spartirsi l’Europa, simbolo della corruzione dell’aristocrazia. E la chiusura con il piccolo Napoleone Francesco impegnato a chiedersi ove si trovi Sant’Elena.
Forzano, come si dice, era uno di quelli che dava del tu a Mussolini, ma la sua era un’amicizia recente. Forzano librettista d’opera, regista e scenografo, aveva fatto amicizia con Mussolini nel 1929 alla presentazione al Pincio del primo dei carri di Tespi. I carri di Tespi erano gigantesche strutture temporanee che potevano essere trasportate per l’Italia su autocarri per allestire eventi di prosa e di lirica nelle piazze lontane dai circuiti dei grandi teatri (la Cultura ai tempi del Ventennio era anche questo).
E quando all’Istituto Luce (Cinecittà non era ancora nata) si pensa a un film per celebrare il decennale della Marcia su Roma tra i nomi proposti c’è quello di Giovanni Forzano. Uomo di teatro a digiuno di cinema, ma valente organizzatore e sperimentatore, tanto da ritargliarsi presto uno spazio nel nascente “cinema di regime” realizzando gli studi cinematografici Pisorno a Tirrenia nel 1933, quattro anni prima di Cinecittà.
Il primo film di Forzano è proprio Camicia Nera, sorta di strano ibrido tra finto documentario intervallato con materiale d’archivio e pieno di suggestioni simboliche. Più vicino a certe docufiction Netflix di oggi che al cinema degli anni Venti e Trenta. Forzano come elemento chiave del regime racconta, con un piglio che anticipa elementi del neorealismo, la vicenda della famiglia di un fabbro (ovvia analogia col mestiere di Mussolini padre) originario delle paludi pontine, dal 1914 fino alla discorso di inaugurazione di Littoria il 18 dicembre 1932. Dal degrado della palude e da un mondo senza lavoro e senza futuro, all’opera di bonifica e alla nascita della nuova città portatrice di prosperità.
Il protagonista, volontario nella Grande guerra finisce disperso sul fronte francese perdendo la memoria, mentre il resto della famiglia è testimone delle varie vicissitudini dell’Italia e dell’Europa. Tra scene di vita quotidiana, compreso il parroco romagnolo che sembra precedere il più famoso parroco emiliano Don Camillo, a fare da commento una voce narrante che legge estratti degli articoli di Mussolini da Il popolo d’Italia. E nella seconda parte, che precede gli estratti dal discorso di inagurazione di Littoria, c’è ampio spazio per stralci di cinegiornali che illustrano l’opera di modernizzazione del regime.
Tanta propaganda e tanta retorica ma non mancanto trovate di montaggio analogico dove tra attrazioni e contrasti Forzano prova a suggestionare ogni tipo di spettatore con scene fortemente simboliche. Come quando descrive gli scioperi del Biennio Rosso come due colonne, Capitale e Lavoro, che si abbattono l’una sull’altra. Il Fascismo porterà il Corporativismo, l’architrave edificato sulla colonna del Capitale e sulla colonna del Lavoro, rendendole stabili e complementari.
Quindi un film molto più sottile e sperimentale di come viene derubricato in molte antologie sul cinema del Ventennio. Inoltre Forzano apre la strada, involontariamente, al futuro neorealismo postbellico: in Camicia nera c’è il bambino co-protagonista: bambino che per prim a cogliere le parole di Mussolini, e una volta cresciuto sarà la camicia nera che suonerà le campane a festa sul municipio di Littoria. Un destino ben diverso da quello dei bambini del neorealismo protagonisti di opere come Paisà e Sciuscià e che rende Forzano particolarmente inviso ai critici amanti del neorealismo.
La vulgata vuole che Camicia nera fosse detestato dagli stessi gerarchi fascisti. In realtà Forzano, deciso a farsi la sua piccola città del cinema a Tirrenia, era semplicemente inviso al duo Ciano – Luigi Freddi: il primo allora responsabile del Sottosegretariato alla Stampa e Propaganda e il secondo dal 1934 responsabile della Direzione generale per la Cinematografia. I due volevano il controllo assoluto sul cinema italiano e mal tolleravano chi, pur di provata fede fascista, cercava vie più autoriali o popolari alla propaganda più didascalica del futuro Minculpop.
Certo, Camicia nera non è un film perduto, si trova persino su Youtube. Ma fa sorridere che nella calda estate italiana tra i continui lamenti delle prefiche dell’antifascismo, e le boccaccesche vicende che hanno portato a un passaggio di testimone al Ministero della cultura, sia bruciato un simbolo di quell’Italia di appena novant’anni fa.
Flavio Bartolucci