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Corruzione e depistaggi: nuovi guai in vista per Eni?

by Armando Haller
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Milano, 9 settembre – Il nome del cane a sei zampe comparirebbe fra le carte della procura di Milano, che sta attualmente indagando su un presunto caso di corruzione internazionale in Congo. Secondo quanto riportato dal settimanale L’Espresso, a finire sotto la lente degli inquirenti sarebbero le partnership concluse dalla multinazionale partecipata dal tesoro italiano e alcune società petrolifere locali. In particolare, i magistrati milanesi avrebbero già acquisito, tramite la Guardia di Finanza, della documentazione utile ad approfondire i termini degli “accordi sottoscritti da Eni Congo negli anni 2013/2014/2015 con il Ministero degli Idrocarburi, volti ad attività di esplorazione, sviluppo e produzione su alcuni permessi e alle modalità con cui sono state individuate le imprese con cui Eni è entrata in partnership”.

Fra queste imprese figurerebbe anche la Africa Oil and Gas Corporation (Aogc), cresciuta rapidamente grazie alle favorevoli attenzioni dell’ex colonnello Denis Sassou Nguesso, che controlla il Paese quasi ininterrottamente dal 1979 e che avrebbe affidato alla società congolese, senza gara pubblica, le quote di quattro giacimenti gestiti da Eni. Il profilo di criticità dell’operazione sarebbe stato rinvenuto, in linea con quanto pubblicato da L’Espresso già ad agosto 2015, nella presenza, fra i soci di Aogc, di due importanti funzionari del governo congolese: Lydie Pongault, consigliere del presidente Nguesso, e Dieudonné Bantsimba, capo di gabinetto del Ministero del Territorio. All’epoca interrogata dallo stesso settimanale, circa gli assetti proprietari di  Aogc, Eni aveva già fatto sapere che “le cariche di Bantsimba e Pongault, in ambito rispettivamente di territorio e cultura, non sono ritenute in conflitto con la posizione di soci, considerate le diverse aree di attività che nulla hanno a che vedere con il settore dell’oil&gas”.

La notizia delle indagini era comunque giunta all’azienda basata a San Donato Milanese lo scorso 6 luglio, quando la Guardia di Finanza aveva recapitato un’informazione di garanzia che qualifica Eni come società indagata per corruzione internazionale ai sensi della legge 231 del 2001 sulla responsabilità amministrativa da reato. Notifica che la compagnia ha peraltro riportato nel proprio bilancio semestrale.

Dopo le inchieste sulle attività in Algeria e Nigeria, con annessi strascichi giudiziari ancora in corso e che hanno coinvolto i vertici aziendali, fra cui l’ex ad Scaroni (ora vicepresidente di Rothschild) e quello attuale Descalzi, i magistrati milanesi tornano a indagare sulle attività dell’azienda italiana, questa volta nell’ex colonia francese confinante con l’omonima Repubblica Democratica. Una notizia che, al netto dell’accertamento di eventuali responsabilità, potrebbe già da subito causare sfavorevoli impatti sul titolo della quotata. Senza contare che l’inchiesta rischia di essere percepita come un’ulteriore spina nel fianco della compagnia petrolifera, già chiamata a operare in contesti internazionali divenuti più delicati in seguito alla destabilizzazione dell’area a Sud del Mediterraneo (continuano gli attacchi ai nostri oleodotti e le interruzioni delle attività estrattive), ai difficili rapporti con l’Egitto dopo l’esplosione dell’affare Regeni e a una rinnovata attenzione francese, ma non solo, per alcune aree del continente africano.

È peraltro delle stesse ore la notizia secondo cui sempre la procura milanese avrebbe indagato tre professionisti per “associazione a delinquere, per aver “concordato e posto in essere un vero e proprio depistaggio” tramite “esposti anonimi e denunce” e per “false dichiarazioni al pm di Siracusa” circa l’”esistenza di un complotto contro Eni e in particolare il suo amministratore delegato Claudio Descalzi”. Il tutto sarebbe avvenuto fra il 2015 e il 2016, con l’obiettivo di “intralciare lo svolgimento dei processi in corso a Milano contro Eni e i suoi dirigenti”, “screditare i consiglieri indipendenti di Eni spa, Luigi Zingales e Karina Litvack” e indurre alle dimissioni l’attuale ad Claudio Descalzi. Un’inchiesta in cui oltre agli indagati, fra cui figurano un “legale esterno di Eni spa” con il suo collaboratore e “altre persone interne ad Eni spa in corso di identificazione”, secondo il Corriere della Sera comparirebbero “anche 007 nigeriani, imprenditori iraniani, avvocati Telecom legati all’ex presidente Franco Bernabè” (dato in corsa per la nomina di ad nella nuova Tim a trazione francese, nda) e “dell’ imprenditore Marco Bacci amico del premier Matteo Renzi”.

Tutti elementi di una storia dai tratti ancora troppo fumosi per trarre qualsiasi conclusione, se non la mancanza di discrezione con cui andrebbero trattate le inchieste che coinvolgono una società partecipata dallo Stato, quotata in borsa e che ogni anno rimpingua le magre casse pubbliche con troppo ambiti dividendi.

Armando Haller

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