Roma, 22 apr – Quando Jorge Mario Bergoglio fu eletto papa, molti videro in lui un uomo venuto “dalla fine del mondo”. Ma pochi compresero che la sua missione non era semplicemente quella di riformare la Chiesa, aggiornarla, aprirla. No. Francesco è stato il pontefice che ha portato a termine il più profondo processo di rottura mai avvenuto all’interno della Chiesa cattolica: la definitiva separazione tra cristianesimo e romanità, tra Vangelo e forma europea.
Francesco è stato il primo Papa pienamente figlio dell’ideologia dell’uguaglianza universale
Se si guarda al pontificato di Papa Francesco attraverso le categorie della cronaca, si rischia di coglierne solo la superficie: il linguaggio inclusivo, l’apertura verso le periferie, la sinodalità come metodo di governo. Ma è solo nel pensiero radicalmente meta-storico – come quello di Giorgio Locchi – che tale figura acquista tutto il suo significato. In questa prospettiva, Bergoglio appare come un agente attivo del processo di de-europeizzazione del mondo e, con esso, della fine del mito europeo. Il mito europeo – secondo Locchi – è la visione eroica e creatrice dell’uomo, incentrata sull’idea di autoaffermazione storica e di continuità culturale. È il mito dell’eterno ritorno del medesimo, che si oppone radicalmente all’idea lineare del tempo, quella giudaico-cristiana e poi progressista, che pensa la storia come redenzione o progresso. Papa Ratzinger, pur dentro l’orizzonte cristiano, si era mostrato consapevole del valore della forma, della tradizione, della memoria mitica dell’Europa. Con Francesco, invece, si compie un salto qualitativo. Il Vaticano diventa un soggetto etico-politico del mondo globalizzato, parla il linguaggio delle Nazioni Unite, fa propria l’agenda delle ONG. Il papa non è più il vicario di Cristo, ma il portavoce spirituale della postmodernità. In termini locchiani, potremmo dire che Francesco è il primo papa pienamente figlio dell’ideologia dell’uguaglianza universale: ha interiorizzato la negazione della differenza come nuovo comandamento morale. È il pontefice dell’umanità astratta, e quindi contro ogni forma.
Il Papa della rottura del compromesso Euro-cristiano
Per duemila anni, il cristianesimo ha convissuto – spesso in tensione, talvolta in sinergia – con la struttura spirituale, simbolica e politica dell’Europa. Con Costantino e poi con Gregorio Magno, con Carlo Magno e poi con Innocenzo III, la Chiesa non si è limitata a predicare il Vangelo: ha assunto la forma imperiale, si è fatta custode di un ordine, di una gerarchia, di una civiltà. Il cattolicesimo è stato, in fondo, il compromesso tra il messaggio paolino e l’eredità pagano-classica di Roma. È stato il cristianesimo romanizzato, radicato nella Storia, nella liturgia, nella teologia, nell’Europa. Benedetto XVI ne è stato il simbolo vivente. Un papa teologo, europeo fino al midollo, convinto che il cristianesimo avesse bisogno della ragione greca per non dissolversi nella superstizione o nell’ideologia. Il suo celebre discorso di Ratisbona, che rivendicava il logos greco-cristiano come base della civiltà occidentale, fu un atto di resistenza culturale contro la deriva relativista. Non è un caso che Benedetto XVI sia stato rapidamente marginalizzato: troppo europeo, troppo teologico, troppo ostico per un mondo che preferisce la narrazione al dogma, il sentimento alla verità. In questa prospettiva, la rottura di Bergoglio con Ratzinger non è solo dottrinale: è ontologica. Ratzinger rappresentava ancora l’idea che la verità fosse legata alla forma, alla gerarchia, alla Tradizione. Con Francesco, il compromesso millenario si spezza. La Chiesa smette di pensarsi come forma storica europea e si presenta finalmente per ciò che, nelle sue radici, è sempre stata: una religione universale, egualitaria, misericordiosa, senza identità. Un cristianesimo purificato dalla storia, slegato da ogni civiltà. E proprio per questo, un cristianesimo pienamente realizzato.
La fine della Chiesa come soggetto europeo
Così, ciò che sembra un atto di riforma è in realtà un atto di compimento, Francesco non tradisce il cristianesimo: lo realizza. Ma è proprio questa realizzazione a decretare la fine della Chiesa come soggetto europeo, come potenza spirituale e politica dell’Occidente. La Chiesa si dissolve nel mondo, diventa coscienza, si fa ONG morale. Non è più il cuore della civiltà: è il suo specchio. Perché quando il cristianesimo smette di essere romano, smette anche di essere europeo. E quando smette di essere europeo, smette di essere civiltà. Francesco è stato il papa di questo passaggio. Non lo ha causato, sia chiaro, ma lo ha certamente capito. Non lo ha contrastato, ma lo ha accompagnato fino in fondo. È difficile trovare nella storia un altro papa capace di parlare con tanta efficacia ai poteri del mondo. E non in senso apologetico, ma in senso simbolico. Francesco durante il suo pontificato ha adottato tutti i codici dell’umanitarismo globale: la compassione, l’inclusione, l’equità, la sostenibilità. Ha fatto della Chiesa non un bastione, ma una piattaforma. Ha reso il cattolicesimo permeabile, fluido, adattabile. In una parola: disponibile. Ma disponibile a chi? A cosa? Alla nuova etica globale che si impone come surrogato della trascendenza. Una spiritualità dolce, priva di escatologia, senza dogmi, senza confini, che ha nella cura e nell’empatia i suoi sacramenti laici. Una morale senza Dio, che accetta tutti e salva nessuno. Francesco non l’ha inventata: l’ha riconosciuta. E l’ha abbracciata.
L’Europa in cerca di senso
Così, mentre il mondo è in cordoglio per il papa argentino, e la stampa lo celebra come “il pontefice del dialogo”, l’Europa si svuota di senso, la Chiesa perde (probabilmente per sempre) la sua forma romana, e l’uomo europeo – quello che ancora crede nella missione storica, nella verticalità del destino, nella potenza creatrice della differenza – si ritrova in un nuovo campo di possibilità. Non saremo certo noi a rimpiangere i tempi del Papa-Re a fronte di una chiesa pienamente globalitaria. Papa Francesco non è stato un semplice pastore ma l’alfiere terminale del lungo processo di cristianizzazione dell’Occidente, che ha portato non alla salvezza, ma all’oblio del mito. Il suo pontificato non apre, ma chiude e dissolve la storia della Chiesa come storia dell’Europa. È la fine della Chiesa come forma, e quindi la fine di un’epoca. Ma come in ogni fine locchiana, il possibile è sempre in agguato. Il mito, sepolto sotto la cappa del moralismo, può sempre riemergere.
Sergio Filacchioni