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Denatalità, perché la questione culturale conta quanto quella economica

by Stelio Fergola
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denatalità culturale

Roma, 9 mag – La denatalità come problema economico va messa un attimino “in ghiaccio”. Non perché non abbia un’importanza assoluta, questo deve essere ben chiaro. Ma perché, rimasta al centro del dibattito per decenni, ora fa fatica a lasciare spazio alle dinamiche culturali e antropologiche che si celano dietro al fatto che non facciamo più bambini e, quindi, ci estinguiamo.

Denatalità, non soltanto un problema economico

Gli assegni familiari previsti come contrasto alla denatalità sono cosa buona e giusta. È palese che una condizione economica sana induca all’ottimismo generale e, quindi, anche alla possibilità maggiore di voler procreare. Specialmente se contiamo la situazione di depressione in cui ci troviamo oggi, lo sbalzo non sarebbe da sottovalutare. Gigi De Palo, a capo della Fondazione per la Natalità, mette in luce in una intervista rilasciata al Giornale, il peso economico della questione: “L’assegno unico non è una nostra idea ma di alcuni parlamentari. Noi ci siamo semplicemente fatti in quattro per fare in modo che fosse votato all’unanimità. È un inizio importantissimo e il governo ha fatto bene ad aumentarlo già in questa legge di bilancio. È un’opportunità per aiutare veramente le famiglie. Non servono bonus o mancette. I figli che oggi vengono messi al mondo saranno quelli che pagheranno la pensione anche a chi non ha figli e finanzieranno, con le tasse, il sistema sanitario di una popolazione sempre più anziana”. Ma nella intervista c’è un problema (oltre a quello di parlare ancora di immigrati stranieri come sedicente soluzione all’estinzione del popolo italiano): non si esce quasi mai dalle dinamiche economiche.

Dobbiamo credere nel futuro

Può sembrare una banalità ma non lo è. Non abbiamo più fiducia in niente e fatichiamo a figurarci come genitori. Soprattutto, siamo depressi. In epoche in cui abbiamo patito la fame ben più di oggi, abbiamo dato alla luce generazioni affollate di nuovi italiani. Oggi, pesa anche lo spostamento dell’età media in cui  si fanno figli, nettamente innaturale rispetto a ciò che il nostro organismo e le nostre energie richiedono: avere una progenie significa anche essere nell’età giusta per poterla seguire e curare come merita. Non siamo biologicamente creati per procreare a 30 o 40 anni, anche se tecnicamente può succedere. E non abbiamo tutti la certezza di poter vivere fino a 80 e passa anni, dunque di ridimensionare il rischio di lasciare dei figli orfani. Occorre invertire la rotta anche su questo, perché se nei Paesi meno sviluppati la demografia continua a crescere e da noi no, la questione non può essere esclusivamente economica. Dunque l’augurio è il seguente: che gli Stati generali della Natalità rappresentino una svolta sotto questo punto di vista. Sebbene nessuno, lo ripetiamo, voglia sostenere che aiutare le difficoltà sul fronte monetario non sia assolutamente un approccio positivo al problema.

Stelio Fergola

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fc 10 Maggio 2023 - 6:00

Bravo, ottimo articolo atto a proporre un effettivo sfondamento di più porte, blindate da castratori ultra materialisti.

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