Roma, 16 apr – Le polemiche scoppiate intorno alle parole del presidente del Piemonte, Alberto Cirio, rivelano molto più della solita sterile diatriba tra destra e sinistra, tra “revisionisti” e “guardiani della memoria”. Rivelano la crisi profonda di una Nazione che ha smesso di pensare in termini di grandezza. E infatti non si contesta tanto il merito – se gli Alpini in Russia siano davvero morti “per garantire la nostra libertà”, come ha dichiarato Cirio ai microfoni del Tg3 – quanto il fatto che si possa ancora evocare con rispetto e riconoscenza una pagina della nostra storia militare che non rientra nei canoni della narrazione antifascista dominante.
Sugli Alpini in Russia tanti clichè
Cirio, nel ricordare gli Alpini della Campagna di Russia, ha detto una frase retorica, certo. Come ogni frase commemorativa. Ma l’indignazione scomposta di certi ambienti – da Rifondazione Comunista fino a blog simbolo dell’area sovranista come Termometro Geopolitico – ha del paradossale. Si finge sdegno per un’ipotetica “rimozione del contesto storico”, quando in realtà è proprio questa sinistra a manipolare la storia, riducendo tutto a slogan moralistici, come l’abusatissimo “inutile strage”. Strage che sarebbe tale solo quando coinvolge soldati italiani, perché se la fanno i partigiani o l’Armata Rossa diventa “lotta di liberazione”. Il punto è che questa sinistra continua ad aborrire ogni forma di identità nazionale che non coincida con l’autoflagellazione permanente. Gli Alpini non possono essere ricordati come uomini d’onore, come combattenti, come parte di una visione strategica dell’Italia. No: devono essere ridotti a vittime passive, carne da macello, “poveri cristi mandati a morire con le scarpe di cartone”. Una narrazione smentita da molti studi seri, e anche da chi ha vissuto quell’inferno: il Regio Esercito, in Russia, combatté con disciplina, coerenza e in condizioni durissime, ma non impreparato. Il mito delle scarpe di cartone, come altri cliché, è frutto della propaganda post-bellica, utile a costruire l’idea di un regime incompetente e criminale anche dal punto di vista militare.
L’Italia pensava in grande
Ma oltre la verità storica, resta il punto politico e culturale più profondo: l’Italia di allora, piaccia o no, era una Nazione che pensava in grande. Che aveva una postura, una visione. L’Operazione Barbarossa non fu un capriccio. Fu – nella logica geopolitica del tempo – una mossa necessaria per contenere una minaccia reale: l’espansionismo bolscevico. L’URSS non era un’innocua utopia agricola: era una potenza imperialista che aveva già divorato l’Europa orientale e che sarebbe arrivata fino a Berlino (come poi è successo, il Patto di Varsavia non è stato certo un “incidente” di percorso). L’Italia fece la sua parte. Non solo per “compiacere Hitler”, come vuole la vulgata, ma per essere protagonista, per contare, per guadagnarsi un posto nel futuro ordine europeo. Quella guerra, per quanto drammatica, fu anche l’ultima vera manifestazione di una volontà di potenza italiana. E questo è il vero motivo per cui oggi se ne parla con tanto imbarazzo: perché ci ricorda un’Italia che non si inginocchiava, che non si giustificava, che non si vergognava di esistere. Un’Italia interventista, imperiale, coraggiosa. Che non si faceva dettare la linea da nessuno. Pensare che Mussolini fosse un folle che spediva uomini a casaccio sui teatri di guerra europei è un’analisi che lasciamo volentieri ad Antonio Scurati.
Nessuna retorica pietista è accettabile
Per questo non possiamo accettare che oggi si ricorra alla retorica pietista – sia di sinistra che di destra – che presenta gli Alpini dell’ARMIR come vittime inconsapevoli “mandate a morire per gli altri”, magari accostandoli agli ucraini di oggi o a tutti gli altri “sacrificabili” che i cervelloni della geopolitica ci indicano come sceme pedine. No: gli Alpini in Russia morirono – ma vinsero anche, la retorica antifascista finisce sempre per oscurare tutto ciò che brilla – per un’idea d’Italia. O forse sarebbe meglio dire a causa di un’idea d’Italia, di un’ambizione politica che oggi ci possiamo solo sognare. Italiani e tedeschi sono morti per un progetto europeo alternativo tanto al dominio sovietico quanto a quello anglo-americano. E anche se non tutti lo compresero allora, oggi lo sappiamo. Oggi ne abbiamo la responsabilità storica: in un’Europa nuovamente divisa, dove Est e Ovest si affrontano di nuovo a colpi di propaganda, l’Italia si ritrova senza voce, senza postura, senza memoria. E chi osa evocare il passato in termini anche solo di “gentilezza” (figuriamoci di grandezza) viene subito zittito da chi preferisce un’Italia genuflessa, colpevole, silente. La spedizione in Russia fu tragica, è vero. Ma fu anche avventura. L’ultima avventura italiana sul cammino della potenza. Un cammino che non fa sconti a nessuno. Un cammino che possiamo riprendere soltanto dando un “senso” al tragico, ricordando i nostri caduti come i protagonisti di una storia che non si è fermata al 1943.
Sergio Filacchioni