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Imperialismo: la natura della cosa

by La Redazione
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Roma, 25 giu – Nonostante l’attacco russo all’Ucraina e l’attacco israeliano (e, ora, statunitense) all’Iran, la parola “imperialismocompare raramente nel dibattito pubblico (su carta stampata, on line e nei talk-show). In contro-tendenza, Emiliano Brancaccio ha scritto: “anche eventi bellici apparentemente ispirati da soli motivi etici, religiosi o banalmente territoriali, se esaminati in profondità rivelano fondamentali connessioni con il quadro generale di feroce lotta tra capitali che sempre più imperversa nel mondo”. Occorre, quindi, per comprendere efficacemente la realtà, passare da una “metafisica della guerra” a una “fisica della guerra”, perché “solo il conoscere le cause materiali della guerra crea le premesse per discutere e deliberare la pace”.

L’imperialismo: una lettura fisica della guerra

Non si tratta, naturalmente, di trascurare un fatto opportunamente rilevato: “Da tempo abbiamo percepito i segnali della disintegrazione, da tempo abbiamo capito che la deregolazione liberale apriva la strada al prevalere della forza nel rapporto tra gli animali umani”. Si tratta di esaminare perché certi limiti al comportamento delle classi dirigenti degli Stati siano stati rimossi. Ma è indubbio che, posta nei termini di un fallimento del “tentativo di sottomettere la ferocia alla politica, l’istinto alla volontà” compiuto dalla cultura moderna la situazione attuale si presenta come un enigma. Dal “dialogo degli Ateniesi e dei Melii” di Tucidide alla guerra dei Cento Anni, alla guerra dei Trent’Anni, alle guerre napoleoniche, alle due guerre mondiali, ai campi di Sterminio, a Hiroshima e Nagasaki, alla guerra nel Vietnam, alle Torri Gemelle, alle guerre in Iraq e in Afgahanistan, alla guerra in Ucraina, al 7 ottobre 2023, agli eccidi di Gaza sarebbe possibile tracciare una storia dell’atrocità organizzata. Si è tentati di sostenere che l’unica differenza fra crudeltà antica e crudeltà moderna sia il diverso grado di sviluppo tecnologico che dipende dal diverso grado di sviluppo dei rapporti di produzione e delle forze produttive; il culmine dello sviluppo capitalistico coincide con il culmine dell’atrocità organizzata. Un culmine assai risalente: esso coincide con lo sviluppo dell’imperialismo.

Lo sviluppo dell’imperialismo

Se le cose stanno così, se, come è stato autorevolmente affermato, l’imperialismo è la “fase suprema del capitalismo” l’attuale apogeo dell’atrocità coincide con l’apogeo dell’imperialismo. Qui, solitamente si sollevano due obiezioni: 1) l’”imperialismo” non è mai esistito; 2) la politica è autonoma dall’economia. A sollevare qualche dubbio sulla contestazione n. 2 varrà una osservazione difficilmente falsificabile: “le riunioni rilevanti sono dominate dai dossier economici, […] le controversie in esse montano sulle questioni economiche, […] le firme si appongono prioritariamente sugli atti economici. […] ad attendere in antisala restano sempre i preti e gli ideologi, mentre i capi di governo dedicano tempo ed energie ai faccendieri dell’economia e dell’alta finanza. E con questi, non con altri, decidono in ultima istanza con chi fare la guerra”. Del resto, se la politica è sempre governo di un territorio attraverso norme di carattere imperativo (leggi) comunque stabilite, il governo di un territorio è primariamente governo della produzione, dello scambio e della distribuzione dei beni attorno al quale ruotano le altre branche delle attività di governo di quel territorio. Né le cose cambiano nei rapporti internazionali, come dimostra la storia economica. L’obiezione n.1 va respinta innanzitutto rilevando che la “molla” della produzione, grande, piccola, media è il credito, di cui si occupa l’economia finanziaria, a partire dalla metà del secolo XIX. E che il capitale finanziario è in continua espansione. Una spinta all’espansione che deriva dalla sua natura composita: “il” capitale finanziario non è nient’altro che l’interazione di catene di investitori organizzati da istituti di credito. Organizzati dai vertici degli istituti di credito, o, meglio da money manager “in un’ottica di ‘valorizzazione’ […] che ha un orizzonte di breve termine” in un processo che assomma “capitalismo dei fondi di pensione” e ben altri fondi. La politica degli istituti di credito condiziona la politica interna ed estera degli Stati.

La guerra e il capitalismo

Ma l’economia non è piuttosto refrattaria all’uso della forza? Il commerciante non è, forse, l’opposto del combattente? La storia economica ci racconta un’altra vicenda rispetto alla vicenda del “dolce commercio” di Montesquieu e di Kant. Pirateria, guerre di aggressione si intrecciano nella funzione sussidiaria rispetto all’onesto commercio in età moderna. Non soltanto la lettura del capitale è sommamente istruttiva in merito, ma anche quella di Guerra e capitalismo (2013) di Werner Sombart mostra lo stretto nesso che lega guerra e capitalismo. Rispetto a questa realtà, quello che sarà il diritto internazionale si rivela essere uno strumento di razionalizzazione a posteriori. Razionalizzazione di che cosa? La risposta viene da Marx: “Con la produzione capitalistica si forma una potenza assolutamente nuova, il sistema del credito, che ai suoi inizi si insinua furtivamente come modesto ausilio dell’accumulazione, attiva mediante fili invisibili i mezzi pecuniari, disseminati in masse maggiori o minori alla superficie della società, nelle mani di capitalisti individuali o associati, diventando però ben presto un’arma nuova e terribile nella lotta della concorrenza e trasformandosi, infine in un immane meccanismo sociale per la centralizzazione dei capitali. Nella misura in cui si sviluppano la produzione e l’accumulazione capitalistica, si sviluppano la concorrenza e il credito, le due leve più potenti della centralizzazione”. La disponibilità del credito avviene attraverso società per azioni, attraverso la raccolta di depositi e il gioco di borsa. Ma occorrono mercati sempre più ampi per la massimizzazione dei profitti. La vicenda dell’economia mondiale tra il 1896 e il 1914 racconta questa storia: “un pugno di Stati particolarmente ricchi e potenti saccheggiano tutto il mondo mediante il semplice taglio delle cedole”.

Dalla concorrenza al monopolio

La concorrenza tende a trasformarsi in monopolio, secondo la logica concreta del libero mercato che, così, si autoregola facendo prevalere i più forti. La guerra è uno strumento fra gli altri. Nell’opera Il capitale finanziario, Rudolf Hilferding scrive: “Una parte sempre crescente del capitale dell’industria non appartiene agli industriali, che lo utilizzano. Essi riescono a disporne solo attraverso le banche, le quali, nei loro riguardi, rappresentano i proprietari del denaro. Gli istituti bancari devono d’altronde fissare nell’industria una parte sempre crescente dei loro capitali, trasformandosi quindi vieppiù in capitalisti industriali. Chiamo capitale finanziario quel capitale bancario, e cioè quel capitale sotto forma di denaro che viene, in tal modo, effettivamente trasformato in capitale industriale”. Lenin precisa che questa definizione va completata con la crescente concentrazione della produzione e del capitale in grado di portare al monopolio. Il capitale finanziario è caratterizzato dall’esportazione di capitale; ne consegue la spartizione del mondo tra i complessi capitalistici: “a misura che cresceva la esportazione dei capitali, si allargavano le relazioni estere e coloniali e le sfere di influenza delle grandi associazioni monopolistiche, naturalmente si procedeva sempre più verso accordi internazionali tra di esse e verso la creazione di cartelli mondiali.” Un processo, questo che non è stato – e continua a non essere privo di conflitti, non di rado sfocianti in guerre, come quella del 1914-1918.

L’unica via dello sviluppo capitalistico

Se ne deduce che lo sviluppo capitalistico non è indolore. Va precisato che “I capitalisti si spartiscono il mondo non per la loro speciale malvagità, bensì perché il grado raggiunto dalla concentrazione li costringe a battere questa via se vogliono ottenere dei profitti”. Spartizione che oggi può essere pacifica, domani bellica, ma che è sempre lotta per la spartizione territoriale del mondo tra le grandi potenze. Come dice Hilferding, “il capitale finanziario non vuole libertà, ma egemonia”.

Francesco Ingravalle

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