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Sorpresa: l’informatica non aumenta la produttività (ma aiuta la deindustrializzazione)

by La Redazione
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informatica industriaRoma, 14 giu – Un nuovo studio sulla produttività del lavoro preparato per il forum dell’Ocse del 31 maggio-1 giugno a Parigi mostra che nel decennio 2004-2014 la produttività è crollata in tutti i paesi industrializzati con l’eccezione totale della Corea del Sud e parziale di altre economie asiatiche, e che i presunti aumenti di produttività dovuti all’informatica e alle innovazioni nelle comunicazioni non sono mai esistiti. Negli Stati Uniti, nell’Ue ed in Giappone, la produttività del lavoro è cresciuta di meno dell’1% nel decennio in esame. La Corea del Sud, nota come il paese dell’ingegneria pesante, rappresenta l’eccezione con oltre il 3,5% annuo (in modo simile alla Cina). Abbiamo già spiegato che una economia terziarizzata, da schiavetti in livrea che servono il cappuccino al siur padrun dalle beli braghi bianchi, è destinata a crollare miseramente su se stessa, ed a nulla può valere la più falsa e sopravvalutata rivoluzione tecnologica di tutti i tempi, cioè quella informatica. In effetti, se la comanda al padrone di cui sopra la prendi con carta e penna oppure con un portatile, non cambia l’effetto netto: schiavetto in livrea.

Addirittura, sembra che la produttività sia letteralmente crollata proprio nei settori in cui l’introduzione dei computer doveva creare miracoli: informazione, finanza, assicurazioni. Chi l’avrebbe mai detto? Quindi non è vero che siamo nell’epoca del terziario avanzato? Quindi non è vero che possiamo campare tutti facendo i barman, i pubblicitari, i trader, i web designer, gli installatori di impianti fotovoltaici? No, evidentemente non è possibile, ed il motivo è talmente facile da capire che anche solo il parlarne mostra come la cultura di massa sia sprofondata nell’abiezione morale. Se si separa l’occupazione industriale moderna dalle infrastrutture che la rendono possibile, e la si sposta in nazioni a bassi salari che quelle infrastrutture non hanno, permettendo alle infrastrutture della nazione di origine di decadere, si abbasserà la produttività dell’intera economia mondiale, per quanto “moderna” possa essere la fabbrica delocalizzata. Non è molto importante se lo schiavo in Bangladesh che cuce le vostre orribili scarpe sia dotato di un chip che ne monitora financo le funzioni corporali, sempre di un lavoro umiliante si tratta, sottratto a chi, magari vicino a casa vostra, lo saprebbe fare meglio.

Certo, poi si tenta in tutti i modi di nascondere quella che è una vera e propria tragedia sfruttando audaci operazioni di marketing, come appunto la solfa stantia del “terziario avanzato”, del “turismo come risorsa” e, da qualche anno, della “green economy”. Ci hanno fatto credere, tanto per dirne una, che un rovistare nella spazzatura come qualunque barbone sia una gran bella cosa, e l’hanno chiamata “raccolta differenziata”, giusto per farci sentire in colpa se non abbiamo la più pallida idea di dove buttare un tampax. Idea veramente cialtrona, tanto che Israele (che non ha spazio da consumare futilmente) ha già messo in azione un grosso reattore ArrowBio, che trasforma i rifiuti in risorse ed energia senza emissioni, perché tutto avviene in ambiente anaerobio. Noi con i sacchettini colorati, loro con i reattori di digestione anaerobica. Un ottimo affare, sicuramente anche lo smistamento dei sacchettini sarà uno dei “lavori del futuro” a cui dobbiamo prepararci.

Un’economia moderna necessita di grandi investimenti, ovvero di “grandi opere” per funzionare. Altrimenti si torna tranquillamente all’epoca in cui imperavano le “piccole opere”, magari con una riproposizione in chiave 2.0 del feudalesimo. Sempre ius primae noctis, ma magari in webcam.

Matteo Rovatti

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