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Intervista a Elvise Lighezzolo: un pioniere dell’arte della sopravvivenza

by La Redazione
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Roma, 8 giu – In questo articolo, i nostri lettori verranno a conoscenza di una persona che, sostanzialmente, è uno dei pionieri del survival in Italia. Ma cosa sappiamo del survival? Negli ultimi anni, tante (forse troppe) persone, si prodigano nell’organizzare training su training di qualsiasi genere, il tutto condito con un ottimo marketing e tutte le comodità che si desiderano.

Ebbene il survival, nel significato più primordiale del termine, è un’intima esperienza per (ri)scoprire se stessi mettendosi alla prova negli ambienti più ostili; è un profondo momento di studio, è un’incessante ricerca di usi e costumi di popolazioni ancestrali di cui ignoriamo l’esistenza. Ma ora passiamo la parola al nostro interlocutore, l’ex maresciallo Elvise Lighezzolo che ci farà apprezzare l’interessante mondo del survival estremo.

Ciao Elvise, prima di tutto grazie per la disponibilità, ora parlaci un po’ di te.

Mi presento, sono Elvise Lighezzolo, classe 1948, nato a Posina in provincia di Vicenza. Mi sono arruolato in Aeronautica prestando servizio in una base missilistica montana e presso il Comando Brigata Aerea di Padova, mi sono congedato nel 1996 col grado di M.llo Aiutante. Diciamo che essendo nato in ambiente montano, fin da ragazzino mi sono sempre appassionato allo studio della natura e alla sopravvivenza. Col passare degli anni, ho iniziato a praticare paracadutismo, alpinismo qualche arte marziale e sono anche un buon sciatore ed altre attività sportive; contestualmente ho approfondito ricerche in ambito di antropologia, etnologia, geografia dei nomadi e storia della Grande Guerra.

Quando hai dato una svolta a questa tua passione, e quali sono state le esperienze più significative?

L’avventura vera e propria inizia nel 1987, quando ho conosciuto il giornalista polacco Jacek Palkiewicz alla scuola di sopravvivenza. Organizziamo una spedizione nel Sahara per testare la resistenza fisica delle persone non autoctone. Questa spedizione, è composta da 11 persone e si svolge in occasione del decennale della Parigi Dakar. Le esperienze nel Sahara verranno ripetute anche nel 90, 91 e 96.

L’organizzazione del viaggio è piuttosto semplice: aereo fino a Tunisi, treno fino a Gabes, autobus fino a Douz e poi a piedi e dromedario. Una settimana di avventura e 220 km battuti tra Douz passando dietro al Djebil fino a  Ksar Ghilane. Una settimana in cui abbiamo viaggiato con gli autoctoni, affrontando il caldo del deserto, gli sbalzi termici della notte, l’assenza di acqua, nel territorio di serpenti e scorpioni; il tutto senza nessuna comodità o veicoli d’appoggio. Queste esperienze non servono solo per mettersi alla prova dal punto di vista fisico e mentale, ma per chi la vive con cognizione e consapevolezza, sono inesauribili fonti di studio, sono il mezzo per trasmettere aspetti culturali che, diversamente, non verrebbero mai alla luce.

Per esempio, tutti i popoli dei deserti bevono il tè, ma, per loro, non è un semplice consumo di bevande come può essere nella nostra società, ma ha un suo rituale ed un significato preciso. Lo si beve nei momenti del “convivio” e lo si deve bere per tre volte: il primo è amaro, amaro come allegoria della vita, il secondo è più aromatico come metafora dell’amore, il terzo è dolce e sta a significare il senso della morte. Col terzo bicchiere, ci si congeda e si lascia la tenda ospitante. Questa è l’usanza dei Tuareg, dei Berberi ecc. e se non si accetta il tè, è considerato un gesto oltremodo scortese.

Nel secondo viaggio, organizzato da me, molto più lungo, abbiamo raggirato Zemlet El Borma e ritorno. Il terzo, è stato l’attraversamento dell’Erg Taffilelt in Marocco per mettersi in contatto con il popolo Sahrawi. Il quarto, forse quello più impegnativo e pericoloso l’ho fatto per quasi tre mesi nel Mali con una guida Tuareg. Qui, con i Tuareg Kel d’ Ifhoras ho provato la disidratazione, le fughe notturne causate da bande rivali e altre avventure, ed è proprio qui che mi sono conquistato la fiducia di questo fiero popolo dei deserti.

Un altro “viaggio” di estremo interesse è stata la foresta Amazzonica (Venezuela) nel 1991, effettuato per conoscere e documentare la vita del popolo Piaroa e Guarrao. Oltre due mesi con un “ Bongo” una canoa abbastanza grande sui fiumi: Rio Quao, Rio Autana, Rio Samariapo, Orinocco, Rio Ventuari, Rio Manapiare Oltre agli spostamenti fatti sui fiumi, molte cose sono state fatte dentro la foresta. La selva è molto particolare, un groviglio di radici, liane impressionante con una vegetazione fittissima. Per avere un esempio durante una escursione in profondità, devi farti largo con un machete  tra la vegetazione per un giorno intero, ed accorgerti tuo malgrado di aver percorso meno di un chilometro. In alcune zone non ci si può nemmeno arrivare. Nella giungla, oltre a guardarti da: insetti, serpenti, felini e qualsiasi altro genere di animale, devi stare attento a non feriti; anche un piccolo taglio può rivelarsi pericolosissimo. Devi stare attento a non procurarti delle fratture (cosa piuttosto facile durante certi percorsi), perché non c’è l’elicottero pronto ad intervenire, non ci sono le attrezzature all’ultima moda, ci sono solo i locali con i loro mezzi talvolta arcaici.

In contesti simili tuttavia, si possono apprezzare usi e costumi che non trasmettono i programmi televisivi, si assaggiano “piatti” veramente esotici: pensiamo alle larve, ai ragni, ad insetti vari, alligatori e così via. Ma come dicevo pocanzi, sono gli usi e costumi a conferire un qualcosa di speciale a queste esperienze. Sempre in Amazzonia, su iniziativa degli autoctoni, ho bevuto una bevanda tipica (chica) a base di tuberi masticati dalle donne, e servita prima al capo tribù per poi essere consumata da tutti gli altri. Ho assaggiato lo yopo, una sorta di allucinogeno che viene spruzzato nel naso tramite una cannuccia fatta con un osso di uccello. Altro viaggio fatto a molti chilometri di distanza, ma sempre in Amazzonia è stato in Ecuador. Anche qui ho vissuto oltre un paio di mesi fra il popolo Shuar e quello Achuar, conosciuti come i Jivaro, i vecchi tagliatori di teste. Oltre ai vari cibi cacciati e pescati nella foresta assieme a loro. Mi hanno insegnato diverse cose oltre alla caccia e pesca, quelle più importanti senza dubbio alcune piante ed erbe mediche.

Ho avuto l’occasione di parlare con uno sciamano, che al contrario di quello che si crede, non è addobbato e non è immediatamente riconoscibile all’interno della comunità, e debbo dire che è stato un privilegio, un’esperienza “mistica” insomma. Il giorno prima di partire durante una cerimonia mi hanno dato il nome indio che conservo soltanto dentro di me.

Sappiamo che sei stato anche al freddo, raccontaci.

Tra le spedizioni effettuate, non manca la Siberia (1989). Arriviamo a Mosca, prendiamo un altro aereo direzione Magada (capoluogo regionale della Ciuckotka ) proseguiamo con un aereo più piccolo fino ad Anadyr (capoluogo della provincia), quindi, con un aereo da venti posti raggiungiamo Pevek , la cittadina più a nord del mondo, da qui con un elicottero dell’Aereoflot ci porta al lago di Elgygytgyn da dove inizia la nostra avventura di 500 km nella tundra siberiana. Dopo un paio di giorni di bufera con neve ghiacciata che arrivava di traverso spinta dal forte vento del Polo è arrivato il momento della lunga discesa del fiume Emminaven. Il fiume scende dalle montagne e scorre in una sterminata pianura. La tundra è un luogo inospitale, temperature fredde anche d’estate, zanzare a non finire e animali selvatici e anche pericolosi come lupi e orsi. I canotti portano tende, attrezzatura, qualche bene di prima necessità, e poche provviste; volutamente poche perché lo scopo della spedizione, è anche procacciarsi il cibo da se. Avevamo una carabina a disposizione per cacciare l’indispensabile, ed una rudimentale attrezzatura per pescare. Grazie all’abilità di alcuni ragazzi che erano con me, l’harius (salmonide che vive in acque molto pulite) non mancava mai. La tundra è un ambiente particolare, desolato e pericoloso, come lo sono i corsi d’acqua che attraversavamo sui piccoli gommoni da due persone ognuno. Il pericolo di non schiantarsi sulle rocce, soprattutto sulle montagne era dovuto al ghiaccio tagliente che accompagnava il fiume. Durante il nostro viaggio tra i fiumi della Ciukotka, ci siamo imbattuti nella popolazione locale, i Ciuki per l’appunto. (Si tratta di una etnia che sta via via scomparendo, alla fine degli anni 80 e l’inizio degli anni 90 erano in meno di 15000). Ricordo benissimo l’ospitalità di queste persone, dai tratti somatici del ceppo paleo siberiano, sempre in abiti tradizionali; ricordo che ci hanno invitato nelle loro jaranghe (tende circolari coperte di pelli), intrattenendo piacevoli conversazioni e condividendo pane, burro e tè.

L’aspetto curioso, è che in questa comunità al momento del nostro arrivo, c’erano solo donne, anziani e bambini. Gli uomini erano ad almeno 60 km di distanza con la mandria di 2500 renne. Quindi l’intera “vita” del villaggio, nonché l’educazione dei bimbi e la cura degli anziani, è in mano alle donne durante i periodi di assenza dei loro uomini.

Questi sono solo piccoli aneddoti, ci vorrebbe più tempo. Tuttavia ricordo con piacere la spedizione in barca a vela di mt. 10.50 a Capo Horn nel 1999, sponsorizzato dall’omonimo marchio. Tre mesi fra le montagne che fanno rabbrividire anche i più forti rocciatori per l’altezza delle sue pareti in granito come il gruppo del Paine, del Fitz Roy e Cerro Torre. Ricordo i bellissimi paesaggi, l’enorme quantità di animali, soprattutto quelli migratori oltre a qualche ruggito del puma. Ricordo la spedizione in Patagonia nel 2000 e Huilliche – Mapuche nel 2002. Entrambe lunghe ma molto meno pericolose.

Dai tempi delle spedizioni ad oggi, in che modo hai dato seguito alla tua attività?

Essendo io un uomo di basso profilo, ho cercato di mantenere alti standard qualitativi senza perdermi nei meandri del marketing sfrenato. Dove inizia il marketing, il concetto di nicchia viene snaturato, e poiché il survival non è per tutti, non può essere un prodotto di largo consumo. In passato ho collaborato con i diversi gruppi di Protezione Civile per attività addestrative, ma anche con scolaresche. Non è detto che ogni attività debba essere estrema, ma sicuramente deve essere trasmessa con professionalità.

Ho un normalissimo sito internet a puro scopo informativo, un profilo Facebook (personale), organizzo qualora ci sia l’occasione delle serate culturali, e ovviamente dispongo a Posina di una struttura rude, in cui organizzo training di elevato spessore tecnico.

Francesco Arcari

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1 commento

ugo 8 Giugno 2019 - 11:37

Alla lunga lista di esperienze di survival estremo mancano una settimana alla stazione di Milano Centrale e un’altra in quella di Roma Termini. A voler essere davvero fenomenali si potrebbe azzardare un tour di un intero anno sulle nostre linee ferroviarie, con pernottamento nella sale d’aspetto delle stazioni toccate. Roba per chi se ne intende, non certo per un comune maresciallo in pensione.

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