Ed è gloria, la gloria di un popolo che conta gli stessi abitanti di Bari o Catania, la gloria di uomini costretti a giocare lontani dall’Islanda e che ritornano come Ulisse, questa volta in versione vichinga, per celebrare le proprie origini. Un calcio in faccia alla retorica multiculturale, un calcio che nasce da un vulcano ed esplode sulle coste del continente. Le storia dei blu ci racconta del telecronista Guðmundur Benediktsson, ex calciatore e nazionale islandese – licenziato nel frattempo dal suo ruolo di vice allenatore dal KR Reykjavik – impazzire di libidine quando i suoi connazionali piegano gli avversari, dall’Austria all’Inghilterra, con la voce strozzata da una fanciullesca emozione.
Ogni leggenda ha bisogno di un condottiero, il campanello a cui suonare, in questo caso, è quello di Aron Gunnarsson. Il centrocampista del Cardiff City, classe ’89, è capitano della propria nazionale da quando di anni ne aveva 23. Alto 1,78cm con un peso che lambisce i 70kg corre e pressa ogni zolla del campo, la sua barba rossa è presente in ogni contrasto, i suoi tatuaggi in ogni minaccia offensiva. Ha sviluppato l’incredibile dote delle rimesse laterali, vedere il primo goal di ieri, che arriva dal passato da giocatore di pallamano – stesso stile dell’ex calciatore irlandese Rory Delap – con braccia che diventano catapulte. La cerimonia a fine gara prevede la sua figura apparire sotto il settore con presenti gli islandesi e chiamare attraverso il battimani la volontà propulsiva dei geyser. Tutti in silenzio, guida Gunnarsson, condottiero in terra di Francia.
Nel 1970 Enzo Jannacci cantava e suonava Messico e Nuvole, aveva voglia di piangere il cantautore milanese ricordando che “tutto si può inventare, ma un matrimonio non si può più”; Islanda e neve, canta oggi l’Europa ammaliata, dal nulla che si fa tutto, inventandosi Grecia versione 2004, matrimonio europeo figlio del mito che non tramonta.
Lorenzo Cafarchio
1 commento
Onore ad una nazionale che rappresenta una Nazione e oggi non è così scontato e onore anche all’Ungheria che, uscita a testa alta, saluta la sua magnifica curva cantando l’inno dopo la sconfitta.