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La battaglia di Castelfidardo e la disfatta del papa re

by Corrado Soldato
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Castelfidardo

Roma, 20 set – «Quante divisioni ha il papa?» chiese ironicamente Stalin nel 1945, durante la conferenza di Jalta, a chi gli faceva notare quanto fosse potenzialmente ostile all’espansione del comunismo in Europa l’allora pontefice Pio XII (un’ostilità che al dittatore sovietico appariva velleitaria, in quanto non sostenuta da alcuna forza militare). Nella tarda estate del 1860, ottantacinque anni prima di Jalta, un’analoga domanda probabilmente la rivolse, al proprio stato maggiore, il conte di Cavour, capo del governo piemontese, allorché decise che era giunto il momento, per l’esercito di re Vittorio Emanuele II, di invadere il territorio della Chiesa. In quest’ultimo caso, però, l’interrogativo di Cavour, qualora fosse stato effettivamente posto, sarebbe suonato tutt’altro che sarcastico, quanto invece dettato dall’esigenza di valutare con realismo i rapporti di forza, nella penisola italiana e oltralpe, in quegli «anni decisivi» della nostra storia nazionale.

Un ostacolo all’unificazione italiana

Si era infatti da poco conclusa, nel luglio 1859, la seconda guerra d’indipendenza che, grazie all’alleanza con la Francia di Napoleone III, aveva portato in dote ai piemontesi la Lombardia (causando, per contraccolpo, la destituzione dei duchi filoaustriaci di Parma, Modena e Firenze). Nel maggio 1860, inoltre, era iniziata l’invasione garibaldina delle Due Sicilie; la quale, man mano che le camicie rosse avanzavano su Napoli, lasciava presagire l’imminente crollo del reame borbonico. Era dunque indispensabile, per Cavour, «saldare» il Nord con il Sud, le due parti dell’Italia «liberata». Senonché, alla «saldatura» era di ingombro nientemeno che papa Pio IX (il marchigiano Mastai Ferretti); il quale, a differenza del suo successore del 1945 (il romano Pacelli), su qualche «divisione» (per tornare a Stalin) poteva contare davvero. Eletto nel 1846, Mastai era infatti sia papa sia re, capo spirituale della cattolicità e sovrano dello Stato pontificio: quel millenario «dominio temporale» della Chiesa che, alla vigilia del Risorgimento, occupava l’Italia centrale, includendo, oltre a Bologna e alle Legazioni romagnole (andate perse, però, nella guerra del 1859), le Marche, l’Umbria e il Lazio, con Roma capitale. Se dunque Pio IX, come papa re, governava uno Stato, aveva anche gli strumenti per difenderlo. E di questo i piemontesi dovevano tenere conto.

Pio IX corre alle armi

La decisione cavouriana di muovere guerra al pontefice non era comunque tale da essere presa a cuor leggero, dato il rischio che il Piemonte si mettesse in urto con l’alleato Napoleone III, erettosi a garante dell’integrità del dominio temporale. L’imperatore francese, tuttavia, per ragioni di ordine interno e internazionale, si era rassegnato a dare il via libera ai sabaudi («fate, ma fate presto» raccomandò loro, ingiungendo però di lasciare Roma a Pio IX). E così, l’11 settembre 1860, Cavour poté ordinare alle sue truppe di varcare il confine umbro-marchigiano, anche a costo di scontrarsi con l’esercito pontificio, che attraversava allora una fase di riorganizzazione. L’incauta strategia di «disarmo unilaterale», perseguita nel decennio precedente dal segretario di stato cardinale Antonelli (convinto che la pressione dell’opinione pubblica cattolica e la garanzia francese fossero sufficienti a conservare intatto il dominio di Pio IX), aveva infatti indebolito il già precario dispositivo militare pontificio. Fortificazioni cadenti, poligoni di tiro abbandonati, depositi senza munizioni, reparti ridotti all’osso: in tali condizioni versava l’armata papale quando il belga De Mérode, dal febbraio 1860 a capo del dicastero della guerra, ne affidò il comando al francese La Moricière, un militare di carriera che aveva fatto esperienza in Nordafrica contro i ribelli algerini. Il generale, profilandosi all’orizzonte la minaccia piemontese e preso atto dell’esiguità delle sue forze, convinse allora De Mérode che, non essendovi nello Stato pontificio la leva obbligatoria, l’unica chance dei papalini era una campagna internazionale per convincere i cattolici europei a fornire a Pio IX denaro, armi e soprattutto combattenti.

Una guerra decisa in partenza

Il reclutamento di De Mérode diede buoni risultati (anche grazie al contributo del clero dei Paesi interessati) e permise di formare un esercito di oltre 20.000 uomini. Non era poco rispetto ai 7000 scarsi di prima, ma neppure abbastanza perché la multilingue armata di Pio IX – con i suoi reggimenti «indigeni» (cioè italiani) e svizzeri, cui presto si affiancarono reparti di volontari «esteri»: tiragliatori franco-belgi, carabinieri tedeschi, bersaglieri austriaci, le «oche pazze» irlandesi del «battaglione di san Patrizio» – potesse sperare di sconfiggere il più omogeneo, numeroso e meglio equipaggiato corpo di spedizione piemontese (forte di 34.000 soldati e avvantaggiato dai moderni cannoni rigati, più precisi di quelli ad anima liscia in dotazione ai pontifici). La guerra tra il papa re e i sabaudi era insomma già decisa in partenza, per la sproporzione delle forze in campo; un divario del quale, peraltro, La Moricière era ben consapevole, se decise di muovere le truppe verso Ancona e asserragliarvisi, sperando nel soccorso francese (o austriaco), che però non venne mai. Il 15 settembre 1860, comunque, il generale pontificio entrò a Macerata e il 16 fu a Loreto. In lontananza, sulle colline di Castelfidardo, si scorgeva l’accampamento del comandante piemontese Cialdini, l’ostacolo da superare sulla via di Ancona. Quell’ostacolo, tuttavia, risultò invalicabile poiché a Castelfidardo, il 18 settembre, i papalini furono sconfitti e, a quella disfatta, seguirono la capitolazione di Ancona e l’annessione di Marche e Umbria al regno sabaudo.

I «diritti dell’umanità» contro lo «gius delle genti»

Non è qui ovviamente possibile ricostruire le fasi della battaglia, su cui peraltro esiste una nutrita bibliografia. Essa fu in realtà poco più che una scaramuccia, per l’esiguità delle truppe impiegate su quelle disponibili (4880 piemontesi e 5000 pontifici) e il ridotto numero di caduti (62 sabaudi e 88 papalini). Eppure l’esito di quello scontro, così modesto a confronto di altre battaglie risorgimentali, fu essenziale per l’avanzamento del processo unitario, se non altro perché segnò l’inizio della fine dello Stato pontificio (il quale, circoscritto a Roma e al Lazio, sopravvisse ancora un decennio, fino alla breccia di Porta Pia del 20 settembre 1870). Al di là dell’evento bellico e delle sue ricadute, però, la battaglia di Castelfidardo offre spunti di riflessione utili a comprendere talune dinamiche della vicenda unitaria, con particolare riguardo al ruolo del papato di Pio IX. Si considerino, per esempio, le ragioni addotte dai contendenti agli occhi della pubblica opinione internazionale per giustificare l’invasione di uno Stato sovrano (dal lato piemontese) e la scelta di versare il sangue per difenderlo (da quello papale). Le motivazioni sabaude erano ben esemplificate dall’ultimatum del generale Fanti (il superiore di Cialdini), in cui si minacciava l’invasione delle terre del papa re se i reggimenti pontifici avessero represso eventuali manifestazioni popolari filopiemontesi in Umbria e nelle Marche (era vivo il ricordo di Perugia dove, il 20 giugno 1859, gli svizzeri del colonnello Schmid avevano ucciso diversi cittadini). Se i piemontesi dunque prospettavano una guerra per ragioni, diremmo oggi, «umanitarie» (i «diritti dell’umanità» evocati da Cavour in una lettera al governo pontificio), a Roma ci si appellava al diritto internazionale; allo «gius delle genti», fu la replica di Antonelli, «sotto la cui egida ha fin qui vissuto l’Europa».

«Oltre il rogo, ira mortal non vive»

Dietro tali nobili princìpi stavano, è sottinteso, motivazioni più concrete: l’impossibilità per i sabaudi di rassegnarsi a un’Italia spezzata in due tronconi e la convinzione di Pio IX che il «civile principato» ecclesiastico fosse garanzia al libero esercizio del magistero pontificale. Il che, peraltro, nulla toglieva alle alte motivazioni ideali dei contendenti. La causa del Piemonte, infatti, si identificava con quella della Nazione italiana e del liberalismo (implicante una Chiesa «alleggerita» dal fardello temporale), laddove il papato mobilitò i suoi fedeli attorno alla visione di un’«ultima crociata» per difendere il vicario di Cristo. Due «mistiche», dunque, si fronteggiarono a Castelfidardo: quella laica e ottocentesca della libertà e della Nazione, e quella trascendente e medievaleggiante della «Chiesa in armi». Prevalse la prima, perché il Piemonte marciava, va detto, nel senso della storia. Eppure, al termine di quella battaglia tra uomini mossi da visioni del mondo così antitetiche, vi fu posto per la pietas. Sul colle dove più crudo infuriò lo scontro si eresse infatti un sacrario per le spoglie dei caduti: di tutti quanti, piemontesi e pontifici. Come scrisse del resto Cialdini, nel biglietto da lui deposto sulla bara di Pimodan (un ufficiale di Pio IX deceduto a Castelfidardo), «Oltre il rogo, ira mortal non vive». Una lezione di civiltà, quella del generale sabaudo, che ancora oggi, in Italia, non tutti hanno appreso.

Bibliografia

  • A. Caruso, Con l’Italia mai! La storia mai raccontata dei Mille del Papa, Longanesi 2015
  • G. Piccinini (a cura di), L’Europa e Castelfidardo. I volontari sul campo della battaglia e le ripercussioni politiche internazionali, «Atti del Congresso nazionale di studi Castelfidardo» del 18 settembre 2010, Gangemi 2011
  • S. Tomassini, Roma, il papa, il re. L’Unità d’Italia e il crollo dello Stato pontificio, Il Saggiatore 2011

Corrado Soldato

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