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La democrazia come «etnocrazia»: il modello ateniese

by Corrado Soldato
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Roma, 11 dic – «Abbiamo una costituzione che non emula le leggi dei vicini, in quanto noi siamo più d’esempio ad altri che imitatori. E poiché è retta in modo che i diritti civili spettino non a poche persone, ma alla maggioranza, essa è chiamata democrazia». Sono queste le celebri parole che, nel secondo libro delle Storie, Tucidide poneva in bocca a Pericle, chiamato nel 431 a.C. – secondo l’usanza di designare, per simili compiti, un uomo «dotato di intelletto» e «stimato dai concittadini» – a pronunciare un’orazione funebre per i primi caduti nel conflitto («la guerra del Peloponneso») che stava contrapponendo Atene a Sparta. Tralasciando ora il paradosso per cui, come riferisce Plutarco nella Vita di Pericle, lo stesso Tucidide considerava quello instaurato dal figlio di Santippo un regime de facto personalistico – una politeia (costituzione) democratica solo «a parole» -, il discorso dello stratego ateniese è da sempre considerato un classico esempio (per di più retoricamente efficace) di apologia del governo popolare: la «democrazia», appunto; il kratos (il potere politico) in mano al demos (alla maggioranza dei cittadini). Un concetto che, in epoca moderna, sarebbe diventato un autentico feticcio: una parola, la democrazia, «che tutti i partiti invocano» e di cui vogliono appropriarsi «come se fosse un talismano», scrisse nel 1849 il transalpino François Guizot (La democrazia in Francia).

La libertà degli antichi e quella dei moderni

La democrazia greca, certo, fu cosa ben diversa da quella liberale affermatasi in Occidente ai tempi di Guizot, sulla scia delle rivoluzioni americana e francese. Lo notava nel 1819 (in piena Restaurazione) Benjamin Constant, in una conferenza (Sulla libertà degli antichi paragonata a quella dei moderni) la quale, per la fama e la risonanza che ebbe, merita di essere accostata al discorso pericleo da cui si sono prese le mosse. Rivolgendosi al pubblico dell’«Athenée royal» di Parigi, Constant contrapponeva la libertà per come la intendevano i greci (e i romani) alla libertà per come, all’epoca sua, la concepivano, per esempio, «un inglese, un francese, un abitante degli Stati Uniti d’America». Da un lato la liberté des anciens che, se consisteva nell’esercizio collettivo e diretto del potere sovrano («nel deliberare della guerra e della pace, nel concludere trattati di alleanza, nel votare le leggi»), aveva come corrispettivo l’assoggettamento dell’individuo all’autorità collettiva («Tutte le azioni private sono sottoposte a una sorveglianza severa. Niente è concesso all’indipendenza individuale rispetto alle opinioni, né rispetto all’occupazione, né soprattutto rispetto alla religione»). Dall’altro la liberté des modernes, dove la rinuncia all’esercizio diretto della sovranità implicita nel sistema rappresentativo («una procura data a un certo numero di uomini dalla massa del popolo, che vuole che i suoi interessi siano difesi e tuttavia non ha il tempo di difenderli sempre in prima persona») è compensata dalla tutela dei diritti individuali (di opinione, di proprietà, di movimento e associazione, di professione del culto). Quella moderna, per Constant, è una dunque una «libertà liberale», dove conta soprattutto, in un quadro di società «aperta», la possibilità di curare gli «interessi privati» più che l’esercizio dei «diritti politici»; quella degli antichi, invece, si identificava con la partecipazione diretta del polites greco (o del civis romano) al processo decisionale sovrano, ma in un contesto sociale «chiuso», in cui ridotto era lo spazio concesso al ripiegamento nel privato e al pluralismo delle opinioni, delle credenze e dei valori.

L’invenzione ateniese della democrazia

Dalla conferenza parigina del 1819 si evince dunque che gli anciens, a differenza dei modernes, erano tanto più democratici quanto meno erano, nel senso che noi attribuiamo al termine, liberali. E sebbene Constant, nella sua analisi della libertà antica, concentri la propria attenzione più sul modello politico di Sparta (e della Roma repubblicana) che su quello di Atene (a suo dire, tra gli Stati antichi, quello che «presenta[va] una somiglianza maggiore con quelli moderni»), è in realtà proprio all’Atene classica – la «scuola dell’Ellade» di cui tesseva l’elogio il Pericle tucidideo – che occorre tornare, se si vuole intendere il senso peculiare della democrazia antica. Furono infatti gli ateniesi, tra i greci, a inventare il governo popolare (il kratos del demos), creando al contempo la parola e la cosa: il concetto, cioè, insieme alle istituzioni e alle norme che a esso davano attuazione. Torniamo perciò alla polis ateniese che, al termine di un secolare processo iniziato agli albori della sua storia, caratterizzato dalla progressiva dissoluzione delle arcaiche istituzioni monarchiche e aristocratiche, trovò in Clistene (arconte nel 508 a.C.) colui che avviò una serie di riforme costituzionali che posero le basi della democrazia cittadina. Non è questo, ovviamente, il luogo per descrivere la complessa struttura istituzionale architettata da Clistene, su cui esiste peraltro una cospicua letteratura di fonti primarie e secondarie; né per enumerare le diverse criticità di quel sistema di governo messe in luce dagli scrittori greci come dagli studiosi contemporanei. Ciò che, in questa sede, interessa rilevare è piuttosto l’elemento che maggiormente specifica la democrazia ateniese, differenziandola (nonostante ciò che ne pensava Constant) da quella liberale, di matrice illuministica, tipica dei moderni: la centralità, cioè, che in essa rivestiva il fondamento «etnico» della cittadinanza, l’accesso alla quale era regolato da «quelle che gli stessi greci consideravano le più delicate ed essenziali fra tutte le loro leggi» (M.A. Levi, La lotta politica nel mondo antico, Mondadori, Milano 1955).

Gli ateniesi «figli della terra»

Illuminante, a questo proposito, è il mito di fondazione della polis ateniese, il cui primo re (Erittonio) fu generato dalla terra dell’Attica fecondata dal seme di Efesto, che la dea Atena aveva deterso dalla propria coscia. «Nati dalla terra e figli della stessa madre», gli ateniesi «erano tutti uguali tra loro e diversi dagli altri, che provenivano da suoli stranieri» (E. Cantarella, Sparta e Atene. Autoritarismo e democrazia, Einaudi, Torino 2021). Tale specificità etnica, miticamente fondata, spiega l’intima connessione dell’idea ateniese di cittadinanza con l’«autoctonia» degli abitanti di Atene; da cui discendevano, per esempio, le numerose restrizioni imposte per legge ai diritti civili e giuridici dei metoikoi (meteci), gli stranieri (anche greci, come il filosofo Aristotele) che risiedevano stabilmente nel territorio della polis. E spiega, inoltre, le limitazioni del diritto di cittadinanza attuate da Atene nel corso della sua storia, come quel decreto di età periclea in cui si stabiliva – è proprio il meteco Aristotele a riferirlo, nella Costituzione degli ateniesi – «che non avrebbe partecipato alla vita politica della città chi non fosse nato da entrambi i genitori cittadini». Ius sanguinis rigoroso quindi, quello di Atene, fondato su un’idea di cittadinanza «forte», non «debole» come quella oggi incarnata dai vari ius soli, scholae e culturae. Democrazia come «etnocrazia», dunque, dove l’enfasi cade sull’ethnos (la stirpe) come soggetto collettivo di partecipazione al processo decisionale; o come «etnarchia», direbbe il nazionalista Enrico Corradini, che ricorse a quel termine nel 1913, auspicando per l’Italia un regime democratico autarchico, che non fosse la mera imitazione di modelli importati dall’estero. A ragione, perciò, Alain De Benoist, nel saggio Democrazia: il problema (ed. it. Arnaud, Firenze 1985), insisteva sull’aspetto identitario, determinato da una storia e un’origine comuni, della democrazia della città di Pericle: dove ethnos e demos coincidevano, nella misura in cui essere un polites significava «appartenere a una patria, cioè nel contempo a una terra e a un passato». E dove la libertà, nel senso partecipativo che le attribuiva Constant, passava per l’appartenenza etnica, essendo «totalmente sprovvista di senso», sottolineava ancora De Benoist, la libertà di «un individuo-senza-appartenenza, di un individuo disinserito». Quella ateniese, per tirare le somme, era quindi una democrazia «organica», dove contava la libertà autentica del polites, non la libertà inautentica dell’idiotes, dell’uomo senza radici, dell’individuo astratto del modello liberale, privo di un concreto legame con la propria comunità di destino.

Corrado Soldato

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