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La Dolezal lancia il transrazzialismo. Scegliere l'etnia in base a "come ci si sente"

by Ilaria Paoletti
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Roma, 5 dic – Il delirio moderno ha un nuovo nome: “transracialism”. E’ ormai di qualche tempo fa la notizia che Rachel Dolezal, un’attivista per i diritti dei neri in America nonché presidente della Naacp (“Agenzia per l’avanzamento dei neri”), era, nei fatti, bianca. In sé non sarebbe una notizia: il problema è che la signora in questione ha sostenuto per anni di essere il frutto di una relazione un padre africano e una donna bianca. Tale biografia fu ignominiosamente sbugiardata dalla stessa famiglia della Dolezal. La madre, Ruthanne Dolezal (bianca, così come il padre), ha rivelato particolari sull’infanzia della donna che non coincidono assolutamente con i suoi racconti: “Non ha mai abitato in Sudafrica, come lei dice: noi genitori siamo stati per un periodo di tempo lì, ma lei non è mai nemmeno venuta a trovarci”. Invece di ritornare nell’anonimato da cui proviene a seguito di questa sonora figura da truffatrice, la Dolezal non si arrende.

Ora, infatti, è attivista di un movimento chiamato “transracialism” (transrazzialismo). Secondo i dettami di tale movimento, un individuo è libero di decidere a quale etnia appartenere. Un bianco può quindi autonomamente decidere di essere nero, e viceversa, e ciò è applicabile a tutte le etnie esistenti al mondo. Tale linea di pensiero ha preso piede negli Stati Uniti e la Dolezal non è più “da sola” in questa assurda battaglia. Abbiamo, ad esempio, la storia di Ja Du. Egli è un uomo transessuale, cittadino americano, che però si “sente” filippino (persino il nome, infatti, non è quello di “battesimo”). Tale volontà di essere filippino lo porta a spostarsi in tuk-tuk per le strade di Tampa, perché ciò lo fa sentire meglio.

Ormai nota alle cronache è, invece, la storia di Martina Big. La modella, nativa della Germania, ha arbitrariamente deciso di diventare nera attraverso numerosi trapianti di melanina. Adesso ha una nuova identità e un nuovo nome: Malaika Kubwa («grande angelo» in swahili). Parallelamente a tale battaglia, in cui si compara il diritto ad avere un’identità sessuale “fluida” ad avere un’identità etnica altrettanto “fluida” (secondo tale assioma se si può decidere “contro natura” di dichiararsi donne anche se nati biologicamente uomini, si è in diritto di dichiararsi cinesi anche se nati biologicamente neri), sui social fioccano sempre di più le critiche, da parte dei neri, alle modelle ed influencer che sfruttando o ingigantendo caratteristiche tipiche della conformazione fisica dei neri (fondoschiena prorompenti, capelli afro, carnagione scura).

Così si rendono colpevoli di “cultural appropriation”, ovvero di sfruttare a proprio favore caratteristiche che un tempo erano ritenute di nicchia perché proprie di una minoranza che aveva ben poca voce. Il cortocircuito “fluido” è un loop senza fine, una battaglia senza posa contro i mulini a vento che sembra essere un specchietto per le allodole di rimedio alla noia e alla vacuità culturale del mondo moderno.

Ilaria Paoletti

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3 comments

Gabriele Casari 5 Dicembre 2018 - 1:07

Sono gli effetti della democrazia , port ail mondo ad impazzire.

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blackwater 5 Dicembre 2018 - 1:45

ho visto le foto di tal “Martina Big” e pur non avendo le qualifiche accademiche per sostenerlo scientificamente,mi sembrano le foto di una persona profondamente disturbata,che andava aiutata a recuperare psicologicamente anzichè ad orribillmente “trasformarsi”, come da foto reperibili in rete.
il punto è che se accetti l’assioma che “uno è quello che si sente” è come un vaso di Pandora aperto,
non sai più come fermare o filtrare quello che ne esce,proprio perchè la premessa è sbagliata; ed alla
fine le prime vittime di questa autentica perversione del buon senso sono proprio tali “Martine”.

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fabtravel.it 5 Dicembre 2018 - 3:20

Glieffetti della chiusura dei manicomi sono anche questi

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