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“La Fratellanza”: quando “restare umani” non serve

by Adriano Scianca
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Roma, 12 set – “Tutti, all’inizio, siamo il piccolo angelo di qualcuno. Un luogo come questo ci costringe a diventare guerrieri o vittime. In mezzo, qui, non c’è niente. E tu hai scelto di essere un guerriero”. È tutto qui, nell’apologo di Bottles, il significato di Shot Caller, il film Ric Roman Waugh uscito in questi giorni nelle sale italiane col titolo La Fratellanza, per la solita, incomprensibile tendenza nostrana a rendere didascalici i titoli, quasi che il nostro pubblico fosse composto di ritardati incapaci di appassionarsi a un riferimento meno immediato. Peccato che La Fratellanza sia un titolo particolarmente inadatto alla pellicola. Se si allude alla gang carceraria dell’Aryan Brotherhood, essa, pur mai nominata chiaramente, è effettivamente centrale nella storia, eppure questo non è un film sulla Fratellanza Ariana, è un film su un uomo e la sua lotta del tutto personale.

Mai, in tutta la pellicola, viene affrontato il profilo ideologico del gruppo, mai viene tematizzato. E mai viene giudicato, va detto. Il che è quasi sorprendente, poiché sappiamo quanto il pentimento e la redenzione siano l’inchiostro con cui è tracciata la grammatica morale di Hollywood, soprattutto quando si ha a che fare con dei “nazisti”. Ma se il protagonista fosse stato nero e la gang fosse stata quella etnicamente corrispondente, nulla sarebbe cambiato ai fini della storia. Soprattutto, questo non è un film che parla di fratellanza in senso etico. Questo sentimento di cameratismo non c’è, non fa parte del mondo in cui finisce Jakob Harlon (Nikolaj Coster-Waldau), affermato broker di Wall Street con una borghesissima vita felice, stroncata però da un incidente automobilistico in cui perde la vita il suo migliore amico. Essendo in America, appare del tutto plausibile la mostruosità giuridica che vede l’uomo finire in galera per 16 mesi (che poi diventeranno 10 anni) insieme alla peggior feccia della nazione. Qui Jakob entra in contatto con una realtà completamente differente da quella che caratterizzava la sua vita precedente, quella in cui era il “piccolo angelo” di sua moglie e di suo figlio.

Riproduzione claustrale della società liberale, il carcere statunitense appare come una realtà darwiniana, in cui non c’è legge e non c’è diritto, a meno che non insorga un’affiliazione a dare protezione, come accade anche nel mondo di fuori con logge, lobby, mafie e confraternite varie. Dietro le sbarre, ci si affilia alle gang etniche, in uno dei rari casi di multiculturalismo perfettamente realizzato. Jakob questo lo capisce al volo, e si dirige subito da Bottles, il capo della Fratellanza bianca nella sua prigione. Il problema è che la protezione ha un costo. Il broker (soprannominato “Money Man”, per via del suo precedente lavoro, e poi solo “Money”) non cerca guai, ma capisce al volo il meccanismo. Questa è probabilmente la parte più claudicante del film. Nella sua vita precedente, Jakob non era certamente un duro: il regista ce lo fa capire con la partita di basket tra colleghi, in cui il nostro vola malamente a terra dopo un intervento appena un po’ più energico. Eppure, dietro le sbarre, gli ci vuole poco a diventare un guerriero, seppur tra iniziali scrupoli morali. Serve tuttavia una notevole sospensione dell’incredulità per calarsi nella storia di questo broker mansueto che, di malavoglia, costretto dagli eventi, strattonato per la giacca, nel giro di qualche mese diventa leader di una banda di tagliagole.

“Shot caller”, appunto: colui che prende le decisioni, quello che dà gli ordini. E che è tale perché non può più tornare indietro. L’idea del non poter fare altrimenti, dell’accettare la sfida del destino fino in fondo, anche se questo significasse sprofondare all’inferno (e le galere americane sono l’inferno) è centrale per definire il senso del film, ed è un tema affrontato con un’asciuttezza e una durezza che fanno dimenticare qualche passaggio affrontato sbrigativamente. La discesa negli inferi di Money è motivata da un’etologia ancestrale e premoderna: la difesa della famiglia, del branco, del territorio. Per evitare soprusi in carcere, secondo l’etica dominante, il protagonista avrebbe dovuto rivolgersi ai secondini e denunciare i capi del cortile. Avrebbe dovuto seguire le regole, affidarsi al sistema e “restare umano”. Ci sono situazioni e contesti, tuttavia, in cui questo non è possibile. Ci sono mondi in cui occorre essere bestia.

Quando deve compiere il suo primo omicidio, necessario alla sua iniziazione nella gang, Money esita. Egli ragiona ancora secondo le regole del mondo di fuori. È Bottles a richiamarlo alla realtà: non ha senso, in carcere, sentire su di sé il giudizio morale della famiglia. È inutile immaginare che moglie e figlio ti stiano guardando. E infatti, quando al processo la moglie vede le immagini del marito coinvolto in un regolamento di conti fra gang, non capisce. Non potrebbe capire. Lei ha sposato l’uomo, ora ha di fronte la bestia. Eppure la bestia sta difendendo proprio lei. Money, come abbiamo detto, protegge la sua famiglia. Non “l’amore”, non “la coppia”, dato che perderà entrambi, ma la famiglia. È il capobranco che si sacrifica che per i suoi, anche se loro non capiscono, perché è ciò che va fatto. In altre epoche, l’uomo e la bestia che sono nel maschio potevano convivere in un equilibrio fecondo. Oggi la scissione è irrimediabile: o resti umano, come il broker svirilizzato e angustiato dai dilemmi morali, o diventi bestia, come il killer muscoloso e tatuato, ma allora perdi l’uomo, ciò che ti lega alla società, agli affetti. Una lacerazione dolorosa, un’alienazione sanguinante. Ma sempre senza alcun rimorso.

Adriano Scianca

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2 comments

giorgiodamilano 13 Settembre 2017 - 11:52

Ho visto il film
Mi è sembrata una denuncia contro la legge che fa arrestare gli automobilisti che provocano incidenti mortali e che magari hanno anche bevuto.
Condivido in pieno la denuncia è assurdo arrestare gli automobilisti per farli diventare dei criminali
Al posto di fare un favore al sistema si rischia di aggravare la situazione alimentando il mondo criminale che sempre cerca elementi da immettere nei circuiti criminali.

Il messaggio del film credo sia che senso ha che educazione è quella di trasformare una brava persona in un autentica macchina criminale ,il protagonista si trasforma in un assassino cinico e calcolatore che lascia agghiacciati
Tanta è la freddezza e la lucidità con cui scala i vertici della fratellanza.
Il protagonista essendo un autentico calcolatore si arrende difronte all evidenza ,non può più ritornare nel mondo dei civili il sistema carcerario lo ha definitivamente inghiottito.
Meditate gente meditate sulle leggi che sembrano giuste ma sono solo populiste e giustizialista nel senso peggiore

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Tony 13 Settembre 2017 - 12:22

..l’uomo è uomo perché umano. Ciò non toglie la sua aggressività, ma fa si che questa possa essere guidata, indirizzata, proprio perché umano, dalla sua coscienza…Chi non è capace di ciò è essenzialmente e soltanto una bestia, nel senso più deteriore del termine.

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