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La nazionale riparte benissimo. Ma contro i calciatori italiani c’è un apartheid sportivo che va affrontato

by Stelio Fergola
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Apartheid calciatori italiani

Roma, 8 giu – Apartheid contro i calciatori italiani? Sì. Specialmente se sono centrocampisti o attaccanti. La bella prova della nazionale (sia ieri sera sia contro la Germania) non può non lasciare aperti degli interrogativi sulla questione. Soprattutto se si pensa alla montagna di stranieri mediocri che in Serie A godono di spazio e pazienza.

Perché l’apartheid contro i calciatori italiani è una cosa evidente

L’apartheid contro i calciatori italiani è evidente per un motivo: sembra quasi impossibile, a livello culturale, riconoscerne doti anche tecniche. Nelle migliori ipotesi si parla di “agonismo”, “personalità” e giocatori come Barella o addirittura Lorenzo Pellegrini passano come gregari. Ma è un pregiudizio quasi razzista. La nazionale che ha vinto i mondiali del 2006, di giocatori di quantità, ne aveva ben di più dell’attuale. Ovviamente, il peso generale era molto maggiore, tra fuoriclasse e calciatori di un’esperienza di ben altro livello.

Un’esperienza frutto di un’epoca in cui l’apartheid ancora non esisteva. Questa nazionale che riprende – e benissimo – dopo il flop delle qualificazioni, di qualità ne ha tanta, ma di esperienza e formazione pochissima. La Germania quasi seccata la scorsa settimana è composta di quasi tutti giocatori che affrontano la Champions League ogni anno. Noi, con una formazione composta da persone che a momenti lottano per non retrocedere, l’abbiamo quasi seccata. La superlativa Inghilterra, quella che non vince mai nulla ma che non si sa perché è definita traboccante di fenomeni, ha perso con la stessa Ungheria che noi ieri abbiamo superato in scioltezza.

E non è solo questione di risultati. Abbiamo ammirato Frattesi, Pellegrini, Tonali, giocatori che di qualità (oltre che di quantità) ne hanno tantissima. Ma se non continueranno a giocare, o se non saranno pedine stabili per obiettivi ambiziosi anche in Serie A, varrà molto poco. Perché i campioni e i fuoriclasse non ci sono solo per volontà divina, come la cultura calcistica italiana purtroppo pensa da anni, alimentando l’apartheid.

Campioni e fuoriclasse non vengono solo dal cielo. Vengono allevati e cresciuti

“Non abbiamo più Totti e Del Piero” è, in assoluto, la frase più stupida che si possa leggere per affrontare il problema. Abbiamo avuto negli ultimi 15 anni alcuni giocatori che avevano potenzialità simili, e non si sono persi soltanto per loro responsabilità. L’unico calciatore tra centrocampo e attacco su cui media, allenatori e dirigenti hanno spinto tanto è Mario Balotelli. Per ricevere una bella delusione. Ma, onestamente, magari si facesse sempre così. Si pensi a Gigi Donnarumma, i cui esordi sono stati tutt’altro che perfetti. Ma che, sempre con l’insistenza, ha oggi prodotto uno dei migliori portieri al mondo. Perché l’insistenza genera risultati, si veda (guarda caso, sempre tra i difensori) i casi di Leonardo Bonucci e Giorgio Chiellini. Soprattutto il primo, agli esordi aveva tanti limiti. Ma gli è stata data tanta, tanta fiducia. Ed è diventato ciò che è diventato. Per fare un parallelo, Alessandro Bastoni oggi riceve molto meno credito, pur essendo ben più forte di come era lo juventino alle prime partite a Torino.

E si parla di difensori, ovvero ruoli tutto sommato ancora non discriminati. Perché in attacco è davvero puro apartheid. E i casi di emarginazione in panca (se va male) stravolgimenti di ruolo titolari (se va bene) esistono eccome. Su tutti quello di Sebastian Giovinco che pare averli vissuti entrambi, emarginato alla Juve fuori ruolo per anni, prima di essere spedito in provincia e recuperato solo successivamente (e, indubbiamente, non reggendo a un certo punto neanche lui le pressioni).

Ma si pensi anche a Lorenzo Insigne, per mezza carriera costretto a fare praticamente il terzino, sebbene titolare, con l’unico risultato utile di non ascoltare le parole del suo primo allenatore, Zdenek Zeman, che criticava pubblicamente lo strano impiego del partenopeo, sostenendo che fosse un attaccante. Gli anni della crescita, però, sono un danno. E Insigne – che nel tiro aveva una delle sue maggiori qualità – è stato costretto a non affinarlo per almeno metà della sua carriera. Perché correre per recuperare un pallone è un conto, ma se sei un attaccante, fare tutto il campo per arrivare in porta è un altro, e comporta solo di non esercitare la propria abilità (per fare un piccolo esempio).

Soprattutto nel secondo caso, non avremo mai la controprova di ciò che sarebbe potuto essere. Ma una certezza ce l’abbiamo: pure quando sono tra i “fortunati” che giocano, i calciatori italiani quasi mai vengono impiegati per le loro caratteristiche. E il signor Lorenzo Pellegrini, in questo senso, rischia ancora oggi di fare la stessa fine del Lorenzo sotto il Vesuvio. Per anni impiegato a centrocampo, tenuto lontano dalla porta o dalla proiezione offensiva che è evidentemente la sua propensione naturale, Pellegrini ha trovato stabilità solo grazie a Jose Mourinho, che quest’anno nella Roma lo ha sfruttato per le sue capacità. Ieri, Roberto Mancini, sembrava averlo voluto in qualche modo “regredire” a centrocampo. Ma l’anarchico Pellegrini è volato verso la porta lo stesso. E, in qualche maniera, ha smentito il Ct come decenni di cultura italiana dell’apartheid calcistico: quello che, nella maggioranza dei casi, relega in provincia o in panchina alla prima partita sbagliata. E nei casi più “fortunati” a far giocare, ma ostacolando in ogni modo la crescita e il miglioramento.

Stelio Fergola

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