Roma, 11 giu – Il brano che qui ripubblichiamo – per gentile concessione della Fondazione Julius Evola – è la testimonianza di Mario Coen Belinfanti, reduce della RSI che conobbe il filosofo romano nel dopoguerra. La frequentazione durò per tutti gli anni cinquanta, fino al giorno della morte di Evola. Di cui Belinfanti ha potuto testimoniarne la solidità stoica.
Le ultime ore di Evola
Doveva essere il marzo-aprile 1974 quando Julius Evola, a causa di uno scompenso cardiaco acuto, ebbe un collasso e perse i sensi. Il suo medico curante, il dottor Placido Procesi, lo fece ricoverare d’urgenza all’Ospedale San Camillo, ma quando il Professore riprese conoscenza protestò violentemente per questa decisione. Si provvide quindi a farlo trasportare in una clinica privata, Villa Betania sull’Aurelia Antica. Una mattina potei andarlo a trovare. Era in una camera da solo coperto da un lenzuolo (faceva caldo). Quando mi vide si rallegrò, ma mi chiese subito una cosa impossibile da realizzare. “Mi faccia tornare a casa, subito”. A questo punto capisco di averlo ingannato. Mi inventai un improbabile sciopero delle ambulanze. Il suo commento fu: “E questo sarebbe il mondo tecnologico!”. Qualche giorno dopo fu comunque riportato a casa in Corso Vittorio Emanuele 197, e lo trovai quindi più sollevato ma in preda ad una evidente prostrazione fisica. Andai a visitarlo più volte senza riscontrare alcun miglioramento. Mi era grato per l’interessamento che avevo per lui, ma non mi chiese mai nulla di particolare. Una domenica mattina, era il 9 giugno, con mia moglie ancora una volta salii al quarto piano e vi trovai la signora Antonietta Fiumara che come sempre si prodigava nella sua assistenza e la governante verso la quale più volte mi aveva manifestato completa sfiducia. Lo stato di prostrazione era arrivato al punto tale da impedirgli di parlare. Non aveva più voce. Ad un certo punto la governante si accostò al letto con una tazza di tè. La rifiutò con le poche forze che gli erano rimaste facendo intendere che da lei in specie non avrebbe accettato nulla. Mi avvicinai quindi a cercare di convincerlo. Mi guardava con un’espressione che definirei ironica. Alla fine sorbì una mezza tazza di tè e gli ritornò la voce. A questo punto ci chiese una cosa che ci parve subito come difficile da realizzare. Vestitemi e portatemi alla scrivania. Non so come ma ci riuscimmo e sostenuto lo portammo alla scrivania. La finestra della sua camera era aperta e dalla medesima si scorge il Fontanone del Gianicolo. In piedi, appoggiato al tavolo e sostenuto da me, restò qualche momento fissando il Gianicolo, poi mi chiese di essere nuovamente adagiato sul letto. Confesso che tutta questa manovra ci restò incomprensibile. Mia moglie ed io dovevamo lasciarlo e ai saluti aggiunsi la preghiera di non rifiutare il cibo. Dissi: “Professore non si abbandoni così. Abbiamo ancora bisogno di lei”. Non dimenticherò mai il suo sorriso disarmante al quale aggiunse come commiato questa frase: “Non si preoccupi. Avremo ancora occasione di vederci e continueremo insieme le conversazioni sui temi che tanto ci interessano…”. Non compresi che quello era un “addio” ed era un appuntamento nel “futuro”. Due giorni dopo ero andato con mia moglie a trovare Alessio Borracino a cui era nato il primo figlio, quando ci giunse la notizia della morte di Julius Evola. Aveva chiesto di ripetere l’operazione alla quale avevo contribuito due giorni prima. Essere portato “in piedi” davanti alla finestra di fronte al Gianicolo e lì la sua forte fibra aveva ceduto. Sono certo che così intenzionato si fosse lasciato morire. La storia dei suoi cosiddetti funerali è stata già scritta in modo non del tutto veritiero. Ma questa è un’altra storia.
Mario Coen Belinfanti