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Esce il rapporto Migrantes 2015, e la Chiesa ci fa la predica

by La Redazione
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Migrantes Londra, 10 dic – “No alle vecchie risposte nazionaliste, si al meticciato”. Questo il messaggio che viene fuori dall’iniziativa inaugurale del Comites (Comitato degli Italiani all’Estero), che lo scorso 3 dicembre, nella sede dell’Istituto Italiano di Cultura di Belgrave Square, a pochi metri da Hyde Park, ha invitato la Fondazione Migrantes (organismo della Conferenza Episcopale Italiana nato nel 1987) e Piero Bassetti, ex presidente delle Camere di Commercio nel Mondo, ad una riflessione sul tema “Italici nel mondo: il ruolo delle comunità italiane all’estero”. Nell’occasione è stato presentato, dalla curatrice Delfina Licata e dal direttore generale di Migrantes mons. Gian Carlo Perego, il Rapporto Italiani all’Estero 2015, mentre Bassetti ha tracciato il concetto di ‘italicità’ secondo l’analisi contenuta nel suo ultimo libro, “Svegliamoci italici”.

Ebbene il rapporto, presentato già in ottobre nella penisola ed ora illustrato brevemente anche agli italiani residenti a Londra, racconta – grazie soprattutto ai dati dell’Aire (Anagrafe Italiani Residenti all’Estero) – un incremento di ben 101.297 persone (44.542 donne e 56.755 uomini) espatriate nell’ultimo anno, che porta a 154.532 le iscrizioni totali di quest’anno, con un incremento del 3,3% su quello precedente. A partire, come abbiamo visto, sono soprattutto uomini (fa eccezione soltanto il Friuli), celibi, tra i 18 ed i 34 anni e, sempre più spesso, settentrionali. Nonostante la Sicilia resti in assoluto la regione con il maggior numero di residenti all’estero, infatti, gli ultimi anni evidenziano una crescita sostanziale degli emigranti dal nord Italia (Lombardia in testa, con il sorpasso di Milano su Roma). Rimane il fatto che, su un totale che supera i 4 milioni e mezzo di iscritti nel 2015 (con una crescita del 49,3% dal 2006), ben il 51,4% provengono dal sud Italia, mentre soltanto il 33,2% sono settentrionali ed il rimanente 15,4% sono giunti dal centro Italia. I continenti che ospitano la maggior parte degli italiani fuori confine sono l’Europa nel 53,9% dei casi e l’America nel 40,3% ma, nell’ultimo anno, gli italiani hanno scelto soprattutto la Germania (oltre 14mila casi), il Regno Unito (oltre 13mila), la Svizzera (11mila) e la Francia (9mila).

Numeri solo parzialmente affidabili, secondo il console generale d’Italia a Londra Massimiliano Mazzanti, che nel suo intervento nel corso dell’incontro ha spiegato: “si tratta solo della punta di un iceberg, perché solo una piccola parte degli italiani residenti fuori dai confini rispettando la regola dell’iscrizione entro i 90 giorni, la maggior parte, invece, ‘emerge’ anche dopo molti anni di permanenza”. La stima circa le presenze nel Regno Unito, ad esempio, dai 260mila iscritti all’Aire giunge, secondo il console, a superare abbondantemente il mezzo milione di presenze, sfiorando addirittura le 800mila unità.

Quanto alle riflessioni condotte a margine del rapporto, la chiave di lettura è tutta nell’approccio “glocale” e nei “gradi sostanziali di italianità variabile”, che Bassetti utilizza per definire il concetto di italicità, motivando la necessità di questa nuova definizione sulla base di una considerazione: “Chi parte si sente cittadino del mondo, un mondo che non è più quello degli Stati nazionali nati da Westfalia, ma quello in cui frontiere e confini tendono a svanire e lasciar prevalere le relazioni di rete”. “Ecco perché”, prosegue l’autore, “occorre rispettare il valore del meticciato e dell’ibridazione, che non postula il tradimento della purezza d’origine”.

Parole perlomeno chiare nella forma, meno invece nei contenuti, considerati gli esempi portati a sostegno della tesi: “Siamo meticci nell’ordinamento militare: non esiste più la sacralità dell’appartenenza nazionale”. E ancora: “La Chiesa è avvantaggiata dalla mancata definizione territoriale”. Ma anche: “Dovremmo prendere esempio dagli ebrei, capace di mantenere viva la propria identità nonostante la diaspora”. E per finire: “l’impero inglese è stato capace di tenere l’India con 100mila uomini, grazie soltanto all’infiltrazione delle élite”.

Azzardando poche considerazioni a fronte di quanto detto, dunque, appare chiaro il vero nocciolo della questione, una e propria scelta di campo da affrontare: la carenza di sovranità nazionale è, dunque, un bene? E con esso anche il superamento stesso degli Stati? Le risposte sembrerebbero esplicite e con esse lo schieramento scelto. Senonché numerose contraddizioni sono lì a mostrare la confusione di chi milita sul fronte utopista del mondo senza frontiere.

E così domina una strategia cerchiobottista per cui, anziché stare con gli Stati o contro gli Stati, a favore del concetto di cittadinanza oppure contro, a regnare è la confusione, sia nell’analisi che negli obiettivi, a tutto vantaggio di chi, nel frattempo, distrugge la sovranità statuale ormai priva di difensori.

Ciò che emerge dall’incontro e questo stato di cose appositamente vago, d’altronde, trova conferma nelle valutazione del rapporto Migrantes sul tema emigrazione, allorché l’Italia viene definita “una nazione che ha scarsamente considerato la mobilità come qualcosa di positivo e produttivo, ancorata ancora oggi all’idea ancestrale dell’emigrazione dei più poveri, di chi aveva fame e usciva dalla guerra, dei volti emaciati con in tasca pane e cipolla e un fagotto o al più una valigia di cartone”.

Peccato, infatti, che a sfruttare questa “idea ancestrale” di giovani che scappano dalla fame e dalla guerra (con smartphone a seguito e volti certo non segnati dalla fame), per far accettare al popolo italiano le ondate migratorie in corso, siano tanto i mezzi di informazione di massa di stampo progressista, quanto la Chiesa stessa, ferma al concetto troppo ampio di un’accoglienza legata ad un’immagine a quanto pare “ancestrale” per sua stessa ammissione.

In fondo, “la Chiesa non guarda al passaporto”, spiega giustamente mons. Perego. A ragione.

Va da sé, però, che un discorso simile non può appartenere all’ordinamento statuale, che poggia invece interamente sul concetto di cittadinanza e priorità nazionale. Una priorità che scricchiola, minata alle fondamenta esattamente dall’idea confusa finora descritta di un mondo senza frontiere e confini, senza Stati e nazioni da difendere, con il diritto di ciascuno di andare dove gli pare senza riconoscere autorità alcune. Che senso ha, in questo contesto – se nazioni, frontiere e cittadinanza non hanno più ragion d’essere – parlare ancora di italianità o, ancor più, diluirne il concetto in quello logicamente più confuso di italicità, con il rischio che questa variabilità dei gradi sostanziali di italianità non conduca ad un livello minimo in cui l’originale humus culturale, storico, politico, sociale, etico e linguistico caratterizzante non lascia ormai che una traccia appena essenziale di sé?

Appare così evidente l’emergere, anche nella Chiesa, di una visione ideologica che fa a pugni con la realtà. Ed il sospetto diventa certezza allorché nel rapporto si sceglie di far riferimento, nell’ambito di una digressione sul passato del fenomeno migratorio italiano, al caso di Luigi Peruzzi, arrestato in Lussemburgo dalla Gestapo nel ’42, ponendo l’accento sulla “testimonianza preziosa del legame tra emigrazione e antifascismo” della storia in questione.

“Il 29 giugno 1959”, si legge inoltre nel rapporto, “con l’enciclica Ad Petri Cathedram Giovanni XXIII ricorda agli emigrati che la Chiesa non dimentica «coloro che, spinti dalla mancanza di mezzi di sostentamento o dalle avverse condizioni politiche o religiose dei loro paesi, hanno dovuto abbandonare la patria».. […] “Alle migrazioni si accenna due anni dopo anche nell’enciclica Mater et magistra. In essa è ripreso il «diritto d’emigrare» caro a Pio XII”.

Questi fattori, uniti ad un deciso “no ai nazionalismi” e l’invito ad un non meglio precisato “meticciato” (ma senza “assimilazioni”), contenuto anch’esso nel rapporto – il quale in un passaggio si rifà testualmente ai principi ideali della Rivoluzione Francese – e riecheggiato nel corso dell’incontro, rivela dunque molto sulla scelta di campo del Vaticano, che non sembra certo ricadere dalla parte degli Stati nazionali. E l’invito alla chiarezza, in questo caso più che mai, è fondamentale nell’operazione di smascheramento delle reali posizioni degli attori in campo.

Emmanuel Raffaele

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1 commento

avigno 10 Dicembre 2015 - 9:52

la chiesa romana per 2000 anni ha complottato contro l’italia e gli italiani.
un grosso errore il concordato. andavano spediti a avignone per sempre.

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