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L’assassinio di Charlie Kirk e l’illusione della resistenza

by Sergio Filacchioni
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Kirk

Roma, 13 sett – L’America è un Paese che ha trasformato la violenza politica in rituale. Dal colpo di Dallas che spense Kennedy fino al Vietnam televisivo, dalla lunga scia di stragi scolastiche fino al mito del cecchino solitario, ogni generazione americana si specchia nel sangue di un nuovo assassinio. Eppure, non è mai rivoluzione: è spettacolo. L’omicidio politico, negli Stati Uniti, non apre varchi ma li chiude: serve a metabolizzare il trauma e a stabilizzare l’ordine. È sempre un gesto che conferma il sistema senza metterlo realmente in discussione.

L’attentato a Kirk rientra nell’ordine americano

Anche l’uccisione di Charlie Kirk rientra in questa logica. Già ce lo vediamo davanti agli occhi: questa storia verrà raccontata come atto di resistenza, mentre per l’attentatore si aprirà il percorso della santificazione antifascista. Il partigiano redivivo, l’eroe popolare, il vendicatore. Ma la realtà è più semplice e più triste. Robinson non ha scalfito l’ordine americano: l’ha rafforzato. Ha fatto un martire alla destra liberal-conservatrice e allo stesso tempo un mito tossico che alimenterà le future generazioni della sinistra antifascista. Lo abbiamo già visto nelle ultime ore: una parte d’Italia fatta di studenti, politici, giornalisti e intellettuali che brinda – in modo più o meno schietto – alla morte del 31enne. Dategli qualche giorno e la pallottola con scritto “Bella ciao” sarà stampata su qualche maglietta. Dategli qualche settimana e inizieremo a vedere le campagne innocentiste mosse da collettivi e centri sociali sulla scorta di quelle viste per Cospito e Salis, o per andare più indietro quelle del “Soccorso rosso” per gli stragisti di Primavalle. Ecco cos’ha fatto Robinson: ha ucciso senza generare conseguenze che non siano la prosecuzione di un frame che si ripete all’infinito.

Per l’antifascismo esistono solo nemici da negare

Di fronte all’assassinio di Kirk, la destra americana – e con essa i suoi epigoni europei – si affretta a rivestirsi dei panni dei difensori del libero dibattito. Rivendica la “civiltà delle idee”, la pacatezza del confronto, la nobiltà del dialogo. È una postura rassicurante, che consente di presentarsi come l’alternativa ragionevole alla violenza della sinistra. Ma è anche un’illusione pericolosa: scambia il desiderio di legittimazione con la realtà dei rapporti di forza. Si dimentica che il dibattito è possibile solo tra pari che si riconoscono reciprocamente, mentre l’antifascismo non riconosce nemmeno la dignità dell’avversario, ma lo considera un’entità da estirpare. Così la destra, illudendosi di difendere un “bene comune” che in realtà non esiste più, abbassa la guardia e si consegna inerme a chi non ha alcun interesse a discutere. Charlie Kirk, da parte sua, rappresentava proprio questa sana ingenuità: credeva ancora che il dibattito fosse possibile, che la logica potesse piegare l’ideologia, che il dialogo potesse spegnere l’odio. È caduto vittima di un equivoco culturale: pensare che dall’altra parte esistesse un interlocutore. In realtà, per la cultura “operante” antifascista, non esistono avversari con cui discutere: esistono nemici da negare. E la sua morte lo dimostra tragicamente.

L’omicidio di Kirk è un atto reazionario

Possiamo dircelo: ora che la sinistra intellettuale e simpatizzante si è concessa, senza più veli, all’elogio dell’omicidio politico, la destra “responsabile” potrebbe avere la strada spianata per portare avanti qualche attacco consistente. E la Meloni, dal canto suo, si è già espressa con un registro che finalmente ha messo l’antifascismo e la sinistra al palo. Ma non può semplicemente atteggiarsi a custode del libero dibattito, a paladina del “no alla violenza”. Sarebbe un’illusione, un autoinganno perbenista senza fondamento storico. Nessun ordine sociale nasce senza violenza: ogni legge è figlia di un atto che non ne aveva a monte, ogni stabilità politica si regge sul monopolio della forza. La politica non si oppone alla violenza: la organizza, la disciplina, la indirizza. Chi crede il contrario è profondamente impreparato alla vita. Il nodo centrale quindi è comprendere che tipo di violenza Robinson ha incarnato. Non quella fondativa, capace di rompere un ordine per generarne uno nuovo, ma quella sterile, individuale, che si consuma nell’attimo e poi viene assorbita dal sistema come anticorpo. Un gesto che, anziché aprire varchi, li richiude. Anziché destabilizzare, consolida. In questo senso, l’omicidio di Charlie Kirk è un atto intrinsecamente reazionario: non sfida l’America, ne diventa carburante.

La normalizzazione degli slogan

Che un proiettile riportasse inciso “Bella ciao” non è un dettaglio folcloristico, ma la prova di un immaginario stanco, ripetitivo, incapace di innovare. È la liturgia consunta dell’antifascismo, ridotta a slogan e feticci. La stessa cultura che da decenni ha normalizzato lo slogan “uccidere un fascista non è reato” e che ora prepara per Robinson l’altare della santificazione. Non c’è nulla di progressivo in tutto questo: è la replica caricaturale di un passato che non genera futuro, ma solo odio ritualizzato. L’America, con i suoi incubi televisivi e i suoi cliché sanguinosi, può permettersi questo eterno ritorno del medesimo. L’Europa no. Qui l’importazione di tale modello sarebbe ancora più sterile, ancora più grottesco, perché priva perfino del contesto mitologico in cui l’America confeziona le sue tragedie. Se il Vecchio Continente non spezza questo riflesso condizionato, rischia di ridursi a scimmiottare la provincia americana: pistoleri contro influencer, antifascisti contro moderati, tutti intrappolati nello stesso sketch. Per noi giovani europei la sfida è un’altra: restituire al conflitto la sua dimensione creatrice, rientrare di prepotenza nella storia, lottare per un progetto reale di futuro. Non c’è politica senza forza, ma la forza può essere seme o può essere parodia. L’antifascismo sceglie la parodia, la negazione, la sterilità. Spetta a chi crede ancora in un’Europa viva e radicata mostrare che il conflitto è la matrice della civiltà e che l’Europa può tornare a farne il seme della sua rinascita.

Sergio Filacchioni

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