Roma, 21 ago – Non è tanto la repressione della Primavera di Praga, avvenuta il 21 agosto del 1968, il tema di questo approfondimento e riflessione, quanto la profonda crisi in cui si trovava tutto il sistema sovietico internazionale in meno di vent’anni di vita (considerandone l’inizio verso la fine degli anni Quaranta nell’Est Europa) e a meno di cinquanta dalla nascita della stessa Urss. L’invasione di quell’estate fu sicuramente di impatto notevole e costitui l’ennesimo boomerang per Mosca, ma fu solo l’ultimo di una serie di inciampi iniziati già negli anni Cinquanta. Inciampi sui quali, ovviamente, si fiondò la propaganda americana, ben lieta di vedere il principale rivale geopolitico costretto a mantenersi esclusivamente con l’uso dei carroarmati.
Primavera di Praga: terza crisi dell’impero sovietico in meno di vent’anni
Si potrebbe considerare quasi un record, per un impero dalla forza militare ed economica – in termini di Pil – comunque notevoli (ma ingannevoli, come vedremo nel successivo paragrafo). Eppure fu così. La rivolta di Poznam, in Polonia, nel 1956, era stata la prima, ma non aveva coinvolto l’Armata Rossa: furono le autorità locali a chiudere la questione. Quell’anno però fu scandito da un evento ben più traumatico per il Cremlino, ovvero la Rivoluzione ungherese che produsse danni internazionali ben maggiori. Lì i carroarmati di Mosca furono costretti a intervenire e a “palesare” la necessità di dover controllare con il fuoco militare i propri “possedimenti”.
Necessità che fu mostrata con ancora maggiore chiarezza con la costruzione del muro di Berlino nel 1961. La Primavera di Praga, iniziata nel maggio del 1968 sotto l’impressione del leader locale Aleksander Dubcek, fu solo il terzo caso in vent’anni. A voler essere più severi, addirittura il terzi in meno di quindici. La cosa bizzarra è che né Budapest né Praga chiedevano ufficialmente la fine del regime comunista. La protesta riguardava soprattutto le libertà, anche se in molti cominciavano a capire quanto fosse letteralmente impossibile mandare avanti un’economia controllata completamente dallo Stato (salvo piccole eccezioni trascurabili, rispetto al valore generale macroeconomico). Di sicuro, la Primavera di Praga fece più rumore perfino di Budapest, anche perché molti la annoverano – erroneamente, a mio giudizio – tra le proteste “sessantottine”. La storia clamorosa e drammatica di Jan Palach, del resto, è di qualche mese successiva, ma ne rappresenta forse il culmine maggiore.
Perché negli anni Sessanta il sistema era già con l’acqua alla gola
La Primavera di Praga fu forse l’ultimo atto di crisi dell’universo sovietico prima del suo crollo, avvenuto oltre vent’anni dopo. Nonostante non ci fossero dati disponibili all’esterno (e in un certo senso neanche “all’interno”, dal momento che troppe statistiche erano “modificate” se non addirittura falsificate, un fatto che creò non pochi problemi a Mikhail Gorbaciov e ai suoi quando salirono al potere nel 1985), qualche fonte “clandestina” di quegli anni e qualche analisi intelligente proveniente da Ovest riuscirono a inquadrare una questione che fu resa palese solo dopo la caduta del blocco e della stessa Urss. Tra le prime ci sono senza dubbio quelle di Arthur Koestler con Nell’inferno dei lavoratori e il “profetico” Andrej Amalrik con Sopravvivrà l’Unione Sovietica fino al 1984?, senza contare, ovviamente, l’opera popolarissima di Aleksandr Solženicyn, Arcipelago gulag. Sebbene di impostazioni differenti (Amalrik, ad esempio, arrivava a prevedere una plausibile guerra con la Cina che però non sarebbe mai scoppiata), l’ammontare delle “fonti sovietiche” non era così scadente. Ad Ovest, da menzionare è il libro di Margaret Miller Il consumatore sovietico, che spiega con una certa lucidità perché il sistema dovesse concentrarsi esclusivamente sul fronte militare seppur “indirettamente”, visto che si interessava della difficoltà endemica del sistema di produrre beni di consumo, denunciando quindi una forza produttiva complessiva limitata.
Insomma, i dati e i numeri registravano una sola cosa: quella delle potenzialità complessive di un blocco costretto a focalizzare tutto sul settore militare-industriale perché incapace – sostanzialmente – di mantenere una competizione con l’Occidente. Nemmeno il più nostalgico dei marxisti è in grado di spiegare quale oscuro demone dovesse obbligare una classe dirigente – quella comunista orientale del blocco, per l’appunto – a vietare non solo l’espatrio ma addirittura i viaggi ad Ovest. Da un punto di vista puramente tecnico, Praga fu una mossa inevitabile per il Cremlino, come lo era stata Budapest nel 1956. Aprire una breccia significava, senza mezzi termini, poter trascinare tutto il sistema di Paesi guidati da Mosca. Cosa che, peraltro, accadde nel 1989, quando di brecce se ne aprirono fin troppe. Che gli americani abbiano stappato lo champagne è la scoperta dell’acqua calda, così come il fatto che – senza dubbio – sfruttarono la situazione a proprio vantaggio (soprattutto negli anni Ottanta). Ma la semplice domanda, quella inerente all’impossibilità addirittura di viaggiare per i cittadini dei sistemi comunisti, non può essere elusa. E la risposta è ovvia.
Se poi parliamo della “necessità storica” di un blocco antitetico a quello americano, ovviamente il discorso cambia. La caduta di quello sovietico fu una bella mazzata anche per gli interessi italiani, ben inclini a barcamenarsi tra le due superpotenze negli anni della Prima Repubblica. Ma lo fu anche perché diede il via libera a uno strapotere statunitense di cui paghiamo le conseguenze ancora oggi. E perché non volle trasformare il comunismo in “qualcosa di diverso”, come avvenuto in Asia.
Stelio Fergola