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Il novecento ruggente di Soffici e Rosai. Amici e nemici a colpi di creatività

by La Redazione
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Roma, 6 ott – E’ il dicembre 1913 e a Firenze, in via Cavour, si possono visitare due mostre. La prima, alla libreria Gonnelli, è quella futurista di “Lacerba”. Da qualche mese la rivista partorita dal vorticoso ingegno di Giovanni Papini e Ardengo Soffici, va all’assalto di ogni possibile cielo borghese, conservatore e accademico, inanellando sfilze di provocazioni fatte apposta per turbare i ben pensanti timorati di Dio. E adesso la sfida è un tumulto di esplosioni creative: forme e colori. In un locale a due passi da Gonnelli, sono esposte le opere del diciottenne, Ottone Rosai, un tipo alto, bruno, dinoccolato e conosciuto nel giro degli artisti come una “testa calda”. Lo sanno tutti: studiava all’Istituto d’Arti Decorative, ha risposto male a un prof. ed è stato espulso. Dopodiché, sempre a causa del suo caratteraccio, lo hanno buttato fuori anche dal Regio Istituto di Belle Arti. Un tipo del genere piace molto ai sovversivi dell’avanguardia, che gli vanno a far visita, gli fanno i complimenti e gli dicono: unisciti a noi.

In particolare Soffici- un talento che va a caccia di talenti, e generosamente li promuove– guarda con interesse i quadri di questo figlio del popolo (il babbo di Ottone viene da una stirpe di intagliatori e falegnami) così attaccato alle immagini del suo mondo: vie e case della Firenze più umile, botteghe, osterie, cieli e cipressi, rappresentati con una limpidezza cruda ed essenziale. Il trentacinquenne Soffici- che viene da una famiglia benestante ed è tutto azzimato, a differenza del proletario Sironi decisamente male in arnese- potrebbe darsi delle arie: è stato a Parigi, ha respirato gli umori artistici più effervescenti, ha incontrato Max Jacob, Pablo Picasso, Guillaume Apollinaire, ha fatto conoscere in Italia geni spericolati come il “veggente” Rimbaud, ha “inventato” le riviste fiorentine insieme a Papini e Prezzolini, è noto e stimato come pittore, critico d’arte, polemista. E anche narratore visto che nel 1911, ha pubblicato “Lemmonio Boreo”, un romanzo che Gobetti definirà “l’Iliade del fascismo”. Nel senso che è un “poema” carico di guerresche avventure, “archetipo” di tutti gli altri che seguirono. Anche se il toscanissimo profilo di Lemmonio è tutto particolare: siamo in presenza di un “eroe” scanzonato e sfacciato, goliardo e beffardo, picaresco e “pirata”. Quello che dieci anni dopo il fascismo avrebbe proposto/imposto. Manganelli compresi. E in “Lemmonio” compaiono già. Ma torniamo alle due mostre del 1913.

Dicevamo di Soffici: è uno degli animatori di “Lacerba”, è stato lui a trovare il titolo della rivista- chiedendo ispirazione all’astrologo Cecco d’Ascoli, morto sul rogo per le sue eresie nel 1327- è lui a disegnare il frontespizio, è lui che innesca ogni tipo di miccia. Ma non gli interessa di atteggiarsi a maestro: vuol bene a Rosai, artista rivoluzionario ma non immemore di radici ed eredità. Così- e ben lo evidenzia la mostra “Soffici e Rosai. Realismo sintetico e colpi di realtà”, aperta dal 7 ottobre al “Museo Soffici” di Poggio a Caiano, in provincia di Firenze– Ardengo e Ottone, ardentemente innovativi e provocatori, saranno compagni di viaggio nella riscoperta della memoria e dell’identità. E cioè di un paesaggio che è insieme territorio dello spirito e visione del mondo. Più armonica in Soffici, sempre più “classico”, più sofferta in Rosai, innamorato del turbinoso Medioevo? Senza dubbio, ma con qualcosa di forte in comune: una forma secca, schietta e sobria. Soffici e Rosai, nei dipinti e nei disegni in esposizione, raccontano corpi e cuori della nostra terra, dipingono oggetti che sono emozioni, rappresentano la vita senza artifici intellettuali, con gli archetipi che balzano fuori dalla natura. Se ci mettiamo, poi, a scavare nell’esistenza dei due artisti, continuiamo a trovarli “insieme”. Insieme nella Grande Guerra che entrambi vedono- e vivono- come occasione di cambiamento rivoluzionario. Perché l’ufficiale Soffici- che scrive diari “sul campo” come “Kobilek” e “La ritirata del Friuli”- e il soldato Rosai- che combatte nei reparti di assalto degli Arditi: e pare che fosse una “belva”- sentono nel profondo dell’anima che gli umili fanti che hanno vissuto tra fango e sangue, pidocchi e merda, e hanno condiviso la paura che ti paralizza e il coraggio che ti scoppia dentro all’improvviso, meritano “un’altra Italia”.

A darle potente linfa vitale saranno Mussolini e le sue Camicie Nere? I due amici ci credono appassionatamente. Ma non ottusamente. E si ritrovano insieme sulle colonne del “Selvaggio” a battersi per una rivoluzione nazionale e popolare che colga l’appello delle “province”- in prima linea, ovviamente, quelle toscane- contro la Roma ministeriale e truffaldina che spinge il Duce a ogni sorta di compromesso con la “vecchia Italia”. Poi, mentre Soffici celebra la patria e l’ordine nel “ritorno al reale”, Rosai dà voce al suo estremismo dalle colonne del “Bargello”- il settimanale delle federazione fascista fiorentina, diretto da Alessandro Pavolini- e soprattutto da quelle dell’”Universale”, il foglio di battaglie antiborghesi, anticlericali e anticapitaliste fondato dall’ex- anarchico Berto Ricci. “Fascisti rossi”, al pari degli amici Vasco Pratolini ed Elio Vittorini? Ottone, dopo il 25 luglio, ne busca da un gruppo di antifascisti che picchiano non solo lo squadrista ma il detestato “finocchio. Il pittore, pur sposato, era notoriamente omosessuale, e a quel tempo, soprattutto tra la gente del popolo, il “gay” era solo un tipo che andava contro natura e che per questo si meritava derisione, riprovazione e all’occorrenza qualche legnata. Diciamo che gliele restituirono perché Ottone ne aveva distribuite tante in giro. Poi, nel ’44, il nostro “fascista rosso” si avvicina alla Resistenza. E la sua casa di via de’ Benci offre rifugio a diversi “compagni” in difficoltà, compreso il “gappista” Bruno Fanciullacci che va da lui dopo aver ammazzato Giovanni Gentile. Ottone lo accoglie ma gli dice anche: “Bel coraggio ammazzare un vecchio!”.

Ardengo, invece, resta fascista fino all’ultimo, aderisce a Salò, collabora al foglio repubblichino “Italia e Civiltà”(che tra le sue firme ebbe quella di un giovanissimo Spadolini), per qualche tempo viene internato per collaborazionismo, nel dopoguerra diventa un punto di riferimento per tanti “fasci” in ordine sparso. Tra i quali c’è anche il pittore e incisore Sigfrido Bartolini, negli anni a seguire uno dei punti di riferimento della cultura anticonformista. Ma quando andò per la prima volta a far visita a Soffici, Sigfrido un ragazzo “allevato” nella federazione comunista di Pistoia. C’è tanto da guardare in Mostra: e guardare significa pensare. Inevitabile l’interrogativo “politico” : Soffici e Rosai, destini diversi, a lungo sodali, poi avversi? Avversi “davvero”? Quando si incontravano, oltre che di pittura, parlavano di fascismo e di comunismo? Certamente tutti e due vissero un Novecento “ruggente”. Credettero, obbedirono, combatterono, dibatterono, disobbedirono. E crearono. Tanto di cappello alla loro dismisura.

Mario Bernardi Guardi

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novecento ruggente di Soffici e Rosai. Amici e nemici a colpi di creatività | NUTesla | The Informant 6 Ottobre 2017 - 5:00

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