Roma, 11 mar – «Non posso più sopportare di guardare ciò che sta accadendo, di ascoltare i gemiti di chi viene assassinato, di osservare questo regno di Satana». Così scriveva il tenente colonnello Łukasz Ciepliński nel 1951, nei suoi messaggi segreti, da un carcere comunista dove veniva torturato. Per lui, come per cinquantamila soldati polacchi, la guerra non era finita nel 1945. Il 1° marzo, in occasione dell’anniversario della fucilazione di Ciepliński e dei suoi sei compagni, la Polonia commemora la Giornata Nazionale della Memoria dei Soldati Maledetti, per rendere omaggio a coloro che hanno lottato fino all’ultimo per una Polonia libera.
Anni fa, parlando con alcune persone, scoprii con sorpresa che in Italia si ritiene che la Polonia sia stata liberata dai sovietici. Poi compresi che non c’era nulla di sorprendente in questa convinzione, visto che in Italia gran parte della cultura dominante ha una sfumatura ideologica di sinistra, e parlare dei crimini comunisti non è certo di moda. Non è quindi strano che si faccia poca menzione della resistenza anticomunista nei paesi dell’Est dopo la Seconda Guerra Mondiale, e che in particolare sia difficile trovare informazioni sulla resistenza polacca in italiano. Non esiste nemmeno una voce su Wikipedia, sebbene articoli su questo argomento siano presenti in altre lingue europee e non solo. In Italia, quindi, si è convinti che la popolazione polacca abbia accolto l’esercito russo a braccia aperte.
Una guerra che non finì
In realtà, non era affatto così. Il comando centrale dell’Armia Krajowa, il braccio armato dello Stato segreto polacco – la più grande struttura di resistenza antinazista in tutta Europa – si preparava a difendere la popolazione dai comunisti già dal 1943. La loro preoccupazione era giustificata, perché subito dopo l’ingresso nel territorio polacco nel 1944, l’esercito sovietico, con il supporto dell’NKVD, iniziò a eliminare fisicamente chi si opponeva al loro potere. I soldati dell’Armia Krajowa venivano arrestati e condannati, circa 50.000 persone vennero rinchiuse nei campi di concentramento e altre 50.000 deportate in Siberia. I soldati sovietici non si trattenevano da nessun tipo di crimine, e così ebbero luogo numerose stragi di massa (durante le quali venivano bruciati interi villaggi), stupri, torture, profanazioni di chiese e migliaia di altri atti di violenza.
In questa situazione Leopold Okulicki, il capo dell’Armia Krajowa, visto che l’organizzazione era indebolita dalla sconfitta della Rivolta di Varsavia e dagli arresti, decise di cambiare strategia. Il 19 gennaio 1945, emise l’ordine di scioglimento ufficiale dell’organizzazione, ma nello stesso giorno inviò anche un secondo ordine, avvertendo che «l’offensiva sovietica in rapido progresso potrebbe portare all’occupazione di tutta la Polonia in breve tempo da parte dell’Armata Rossa. In effetti, nonostante le apparenze di libertà, ciò significherebbe il passaggio da un’occupazione a un’altra, ancora più pericolosa» e consigliava alle unità di continuare la resistenza. In questo modo, si formarono numerose organizzazioni, tra cui le più importanti erano le Narodowe Siły Zbrojne (Forze Armate Nazionali, NSZ) e Wolność i Niezawisłość (Libertà e Indipendenza, WiN), di cui uno dei capi era Łukasz Ciepliński. La maggior parte di queste organizzazioni, come il WiN, decise di adottare un approccio politico-civile che, all’epoca, sembrava ancora possibile. Tuttavia, secondo le stime odierne, nella primavera del 1945 circa 17.000 persone appartenevano alle truppe regolari che combattevano come partigiani. La maggior parte di loro erano soldati dell’NSZ che, prima della guerra, erano soldati professionisti.
Il 22 settembre 1945, il nuovo Governo provvisorio della Repubblica Popolare di Polonia, sottomesso a Mosca, annunciò l’amnistia per tutti i reati politici. Molti ex combattenti dell’Armia Krajowa credettero nelle promesse di «normalizzazione» e circa 35.000-45.000 di loro usufruirono dell’amnistia. Tuttavia, ben presto si disillusero, poiché l’Ufficio di Sicurezza utilizzò l’elenco delle persone che si erano presentate per avviare nuovi processi politici, durante i quali gli ex membri della resistenza antinazista venivano condannati a morte o all’ergastolo per “crimini fascisti”, “tradimento” o “terrorismo”. Molti di coloro che speravano di tornare a una vita normale furono costretti a riprendere la lotta partigiana per evitare brutali processi e la morte. Così, il numero dei partigiani salì fino a 40.000-50.000, secondo le stime della CIA del 1946. Questo numero è ovviamente approssimativo. Erano anni di caos, in cui non era facile distinguere tra amici e nemici. Alcuni partigiani si arruolavano nella milizia comunista per mantenere il controllo del territorio e proteggere la popolazione, mentre altri membri dei corpi armati comunisti disertavano per unirsi ai partigiani. È comunque chiaro che la «seconda resistenza» fu un fenomeno di massa.
Brutali persecuzioni e processi farsa
Contemporaneamente, continuavano i processi farsa. Gli anticomunisti catturati venivano torturati e condannati a morte o all’ergastolo. Questo valeva non solo per i soldati, ma anche per chiunque fosse stato coinvolto nella resistenza. È famoso il caso di Danuta Siedzikówna, detta “Inka”, una sedicenne infermiera che assisteva un gruppo di partigiani. Fu arrestata nel giugno del 1946, quando si recò a Danzica per comprare delle medicine. Torturata, processata sommariamente e fucilata il 28 agosto 1946, fu sepolta in una fossa comune.
Con il passare del tempo, le forze della resistenza si stavano esaurendo. Si spense la speranza, che era viva alla fine della Seconda Guerra Mondiale, di un nuovo conflitto militare tra l’Occidente e la Russia, che avrebbe potuto liberare la Polonia, invece il cambiamento pacifico delle condizioni politiche dopo le elezioni parlamentari falsificate nel gennaio del 1947 sembrava ormai impossibile. Approfittando di quest’atmosfera di rassegnazione, il governo comunista annunciò una seconda amnistia, di cui usufruirono più di 70.000 persone (di cui 23.000 incarcerate).. Ma anche in questo caso, il regime comunista non mantenne la parola, e l’amnistia divenne uno strumento per lanciare nuovi arresti e processi. Fu il caso di Łukasz Ciepliński, allora presidente della IV Sezione di Wolność i Niezawisłość. Arrestato il 28 novembre 1947 inizialmente accettò la proposta di collaborazione con l’Ufficio di sicurezza, per salvare la vita dei suoi 2.500 soldati, ma poi si accorse che l’accordo non sarebbe stato mantenuto e rifiutò. Dopo una serie di brutali interrogatori, nell’ottobre del 1950 fu condannato a morte con l’accusa di spionaggio a favore degli Stati Uniti. Fu fucilato il 1° marzo 1951 insieme ai suoi sei compagni. Tutti furono sepolti in un luogo sconosciuto. Il copione dei processi farsa fu lo stesso in migliaia di casi in tutta la Polonia fino al 1953.
La resistenza armata fu quasi completamente sconfitta, ma anche dopo l’amnistia del 1947, nei boschi rimasero ancora quasi 2.000 partigiani che continuarono la loro lotta fino alla fine. Due anni dopo, il loro numero era diminuito a 250 persone e l’ultimo partigiano, Józef Franczak, fu ucciso solo nel 1963.
Il recupero della memoria dei “Soldati maledetti”
Negli anni del dopoguerra, il governo comunista non solo uccideva i membri della resistenza, ma conduceva anche una feroce campagna di diffamazione contro di loro. Erano chiamati “banditi”, accusati di violenza estrema e condannati alla damnatio memoriae. Anche le loro famiglie venivano perseguitate; spesso, dopo la morte del marito o del padre, ricevevano lettere ufficiali che annunciavano l’esecuzione della condanna con scritte il tono dispregativo. Una delle vedove ricevette una lettera che diceva che suo marito era stato ucciso «con un’eterna vergogna e chi ha il sangue polacco nelle vene lo maledica, quindi lo rinneghi anche la moglie e il figlio».
Questa frase divenne l’ispirazione per la prima mostra dedicata alla resistenza anticomunista degli anni ’40 e ’50, preparata solo nel 1993, con il titolo “Żołnierze Wyklęci”, ovvero “Soldati maledetti”. Da quel momento è iniziato il lento e difficile processo di recupero della memoria, ostacolato dai discendenti ideologici dei comunisti che continuavano a ripetere le vecchie menzogne. Dopo anni di lavoro e centinaia di iniziative private – tra cui libri, mostre e gruppi di rievocazione storica – questo enorme sforzo ha portato, nel 2011, all’istituzione del 1° marzo come Giornata Nazionale dei Soldati Maledetti. Oggi la storia dei soldati maledetti – chiamati anche “soldati indomiti” – è ampiamente conosciuta, anche grazie ai film pubblicati negli ultimi anni. Così, l’esempio dei soldati maledetti è una lezione importante, non solo sulle virtù, ma anche sulla verità. Diffamati, uccisi, sepolti nelle fosse comuni, dovevano essere cancellati per sempre dalla storia. Invece, a sparire è stato il comunismo, e i soldati indomiti sono tornati nella coscienza nazionale; per molti, in quest’era di relativismo e consumismo, sono una vera stella polare.
Sylwia Mazurek