Roma, 11 giu
Un caso emblematico è il cineasta danese Nicolas Winding Refn, che ha firmato capolavori come Valhalla Rising, Drive, Solo Dio perdona. Tutti i suoi film dopo Bronson hanno immancabilmente sollevato polemiche e aspre critiche, dividendo nettamente i giudizi tra chi lo ama e chi lo odia. Complessivamente le critiche alle sue opere tendono a mettere in luce la povertà dei dialoghi, la fascinazione per la violenza, un uso dei cromatismi e delle inquadrature disorientante, trame ridotte all’osso e così via. Tutte questi giudizi negativi mancano il segno perché il cinema di Winding Refn può difficilmente essere valutato con gli stessi occhi e gli stessi parametri utilizzati per altri registi. D’altronde si tratta di un autore che sin da giovane ha approcciato il cinema con un’attitudine anticonformista. Iniziò a sedici anni con la visione del classico Non aprite quella porta di cui disse “ha mandato in frantumi tutto, non c’era politica, non c’era sessualità, non c’era alcun significato, solo istinto primario cinetico”, in rottura con le posizioni socialisteggianti della madre: “per la generazione dei miei genitori la Nouvelle Vague era l’unico cinema possibile. Una forma di autoritarismo e di oppressione del politically correct. Andare contro quella “politique des auteurs” è stata la mia ribellione, la mia rivolta contro i padri. E in questo caso specifico, la madre, mia mamma. Era una cultura ossessiva, ideologica, oppressiva. Io, ad esempio, ho sempre prediletto il cinema francese, italiano e americano degli anni Quaranta e Cinquanta, quello prima dei Sessanta. Il cinema di genere, il cinema degli Studios”. Da allora il talento scandaloso del regista danese è andato sempre più affinandosi.
La trilogia di Pusher può a buon diritto rientrare nel genere pulp-hardboiled rilanciato sul finire del XX secolo da Tarantino, John Woo, Kitano e Miike Takashi. Nello specifico Pusher 2 presenta già alcuni dei caratteri peculiari che Refn andrà sviluppando e potenziando al massimo nei suoi film successivi. I tre film sono diventati a buon diritto pellicole di culto, ma costituiscono soltanto un punto di partenza per una visione artistica che nel corso degli anni ha puntato a stravolgere i canoni visivi e narrativi. In Pusher la violenza e lo squallore di vite estreme e ai margini la fanno da padrone, alleviate però nel secondo capitolo da un finale in cui il senso del dovere e l’amore riescono a spezzare l’anello velenoso che attanaglia il protagonista. Qui, come altrove, il regista lascia parlare la musica e attraverso la colonna sonora rafforza il messaggio che vuole lanciare. La scelta di pezzi electro-pop è sempre meticolosa e perfettamente inserita nella costruzione com
Bronson, il film che lo ha fatto conoscere in tutto il mondo e che ha imposto Tom Hardy con tutta la sua versatilità attoriale e potenza fisica, è un passo ulteriore e marcato verso il pieno chiarirsi del “paradigma Refn”. Qui sono la violenza e la ribellione a farla da padrone, ma il tutto assemblato in un prisma multiforme di stili. In questa pellicola compare con maggiore rilevanza l’uso di colori forti, sporchi, shocking. Stupefacente e straniante a un tempo è poi Valhalla Rising, a provocare la rottura definitiva. Sin dalla scelta grafica di copertina il film non si presenta come la solita pellicola sui vichinghi. Un gusto tutto archeofuturista percorre l’opera, unendo al contesto storico un’estetica sonora e visiva assolutamente futuristica. L’effetto è dirompente e Valhalla Rising può essere a buon diritto considerato un film dell’orrore rivolto a un pubblico selezionato. A questo si aggiunge il carico da novanta della pellicola: un protagonista muto e monocolo che, come una sorta di Odino, comunica con gli altri attraverso un bambino.
Dopo Valhalla Rising è Drive a portare in primo piano un Ryan Gosling distaccato e virile. In un mondo del cinema bulimico in fatto di comunicatività e ricerca di colpi di scena spesso maldestri, il regista danese semplifica al massimo protagonisti e trama, sviluppando un approccio da video-art, puntando così sulla potenza comunicativa dello stile e dell’azione piuttosto che su quella del parlato. Il misterioso protagonista della pellicola appare come un puro, spinto dagli eventi a esplosioni di durezza imprevista. A proposito della violenza in questo film dirà: “Come il sesso, è un accumulo. La violenza è una macchina, non serve a niente se non sei coinvolto a livello emotivo. Quindi, più sei preso dalla loro storia d’amore, più l’uso della violenza sarà efficace. E dato che il loro amore è così puro, per una questione di equilibrio le scene di violenza devono essere molto esplicite. Come in una favola dei Grimm”. Purezza e sangue diventano così le due facce della stessa medaglia. Ma se VR e Drive erano due film quanto meno problematici, Solo Dio perdona segna da un lato la piena maturazione artistica del regista e dall’altro un ulteriore caso di divisioni fortemente contrastanti tra la critica. Si tratta di un film oscuro, violento, opprimente, girato in Thailandia e dove ancora una volta i dialoghi hanno un ruolo limitato rispetto all’importanza delle allusioni, dell’uso di colori eccitanti e shocking e complessivamente d
L’arte di Nicholas Winding Refn ha a che fare con i lati oscuri della vita, con un mondo dove la violenza e il terrifico fanno irruzione come elementi ineliminabili. Sono spesso gli esclusi, coloro che si collocano ai margini, a riuscire almeno in parte a tenere testa agli eventi, pure nelle precarie possibilità di tempi di corruzione e brutalità e ad essere, come li ha definiti, “eroi nati per perdere”. Refn sembra conservare fiducia in un fulcro di luce e integrità che non muore, nonostante tutto. Nello scatenarsi della violenza, il prevalere della follia e del terrore, sono la nobiltà d’animo e l’amore puro a fare da scudo e arma se non di vittoria, per lo meno di salvezza. Così in molti film di Refn i bambini rivestono un ruolo rivelatore, quello di una vita pura che viene salvata, protetta anche a costo del sacrificio estremo.
Il cineasta forse crede in una giustizia che si amministra attraverso decisioni individuali e si affida al silenzio e all’onore personale. Comunque stiano le cose, ha saputo dar vita a un’arte personale, fortemente divisiva e contro corrente, che riunisce suggestioni e input complessivamente appartenenti a una visione del mondo tragica, eroica, futuristica e primordiale a un tempo. Giocando con i suoi problemi d’infanzia, dislessia e daltonismo, ha saputo trasmutarli nella sua arte in silenzi espressivi e fluorescenze impattanti.
Francesco Boco
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