Roma, 17 set – Ægishjalmre Vegvísir, il primo dei quali meno noto del secondo forse per via della difficoltà nello scriverlo e soprattutto pronunciarlo, sono al centro di uno dei più grandi equivoci riguardanti la mitologia e la magia nordiche. Anche chi non dovesse conoscere i due termini, vedendo le immagini corrispondenti le riconoscerebbe subito, perché sono ormai ovunque. La serie Vikings (per dirne una, ricordate gli scudi dei guerrieri di Re Harald?) non è la sola responsabile, ma ha contribuito enormemente alla diffusione di svarioni ancora più subdoli dei vichinghi coi rasta. Fino a farci comparire quotidianamente ovunque pubblicità sponsorizzate con cuscini, tazze, lenzuola, abiti, ciondoli e bracciali, tappetini per il mouse, cappottini per il cagnetto e tende per il bagno. Il tutto immancabilmente marchiato con rune, Ægishjalmr e Vegvísir.
Due falsi totali
Per quanto riguarda le rune, possiamo tranquillamente considerare abuso il loro utilizzo in quei contesti. Per gli altri due invece dobbiamo prendere coscienza del fatto che sono essi stessi per natura e semantica due falsi totali, degli strumenti più o meno consapevoli per provare una volta di più a disinnescare il Mito, nel quadro nefando di quella cancel culture antieuropea che prosegue ormai da un paio di millenni.
(Fáfnismál, 16-17)
La traduzione soprastante, quasi letterale e in linea con quelle più diffuse e autorevoli, riporta che Fáfnir – drago, serpente o verme che lo si intenda – avrebbe indossato un non meglio specificato “elmo del terrore” indicato come Œgishjalmr. Il termine è composto: hjalmr in antico norreno significa in effetti elmo come il protogermanico *helmaz, e la radice protoindoeuropea è *k̑el-, che vale per nascondere, celare, tenere segreto (stessa radice del latino celo); invece ǿgir significa intimorire, stupire, spaventare, causare paura, e questo significato ha attraversato tutte le fasi linguistiche fin dalla radice *aig-, la quale però include anche l’accezione di affliggere, sottomettere.
Ægishjalmr e Vegvísir
È noto che gli elmi decorati metallici, spesso anche con motivi zoomorfi sia per richiamare il collegamento con una divinità che per intimorire gli avversari, erano riservati al condottieri, all’eroe, e in generale ai guerrieri più valorosi – che verosimilmente avevano anche accumulato sufficienti bottini da potersi permettere il metallo lavorato al posto del cuoio – e dunque tradurre Œgishjalmr riferendosi ad un oggetto reale significa intenderlo come un pezzo d’armatura straordinario capace di incutere timore sia in battaglia che in valore assoluto come simbolo di dominio gerarchico, di autorità e insieme autorevolezza. Pur non essendo molti i reperti archeologici, sono note diverse tipologie di elmi metallici afferenti a diverse zone e epoche.
Alla materialità della guerra e della politica le saghe aggiungono il tema della magia: volendo assassinare nel sonno Re Olaf Tryggvason, Eywind dota i suoi guerrieri di elmi dell’invisibilità, e solleva inoltre una nebbia magica che li nasconda nel loro tragitto. Il tema del huliðshjálmr (elmo dell’invisibilità) ricorre più volte. Che si tratti di miti, saghe o archeologia, non una sola volta si menziona o si trova un simbolo grafico corrispondente a quello che oggi viene chiamato Ægishjalmr.
Cosa sappiamo invece dell’ancora più noto Vegvísir? L’etimologia rimanda all’antico norreno víss (l’essere saggio, cioè a conoscenza di qualcosa, dalla radice *u̯eid- che significa essere saggio nel senso di vedere e dunque sapere, contiguo ma non coincidente all’etimologia di vate), e poiché vegr è il percorso da intraprendere, il simbolo chiamato Vegvísir promette di non far perdere chi lo porti. In effetti è questo ciò che promette la didascalia che accompagna il disegno nel Manoscritto di Huld: se porti questo simbolo non ti perderai nelle tempeste, anche se la strada da percorrere ti è ignota.
Non c’è alcunché di europeo…
Forse è per questo che i vichinghi hanno scoperto – involontariamente, perdendosi – il Nord America? Impossibile: questa bussola vichinga, come viene tristemente chiamata sempre più spesso, non ha alcunché a che vedere con i vichinghi e compare per la prima volta nel XIX secolo proprio nel citato manoscritto. Per dovere di sintesi – e soprattutto per scarso interesse – non verranno qui citati i diversi grimori nei quali compaiono, ma l’amara verità è che nessuno dei due simboli compare prima del XVI-XVII secolo. Altra amarissima verità: non c’è alcunché di europeo nel Ægishjalmr e nel Vegvísir. “Ma come no??? Io me lo sono tatuato in bella vista perché l’identità europea bla bla bla” dirà qualcuno, e purtroppo sbaglia.
Nonostante vengano spesso accostati alle rune, i grimori e la magia islandese in generale hanno ben poco di autoctono. Certo, in alcuni dei tanti – troppi, decisamente – sigilli (galdrastafir) che compaiono in quei volumi, ci sono talvolta delle rune buttate qua e là, ma oltre ad essere casi piuttosto rari, quelle rune si trovano lì o per ignoranza o per disonestà.
La natura stessa di quei sigilli è innanzitutto puramente utilitaristica. Troviamo il sigillo per conquistare una donna, quello da incidere sul fondo dei barili per evitare che perdano il contenuto, quello per uccidere il bestiame dell’avversario, quello per diventare ricchi, quello contro i ladri… insomma, magia utilitaristica, ipermaterialista, priva di qualsivoglia legame col Sacro pre e indoeuropeo. Non c’è alcuna elevazione, non c’è alcuna trascendenza, niente di niente: solo utilità materiale ateologica.
Chi ha gettato acqua sul sacro?
Non c’è traccia alcuna di tutto ciò prima del XVI secolo, e non a caso: prima di arrivare a questa “magia” – fra virgolette, essendo tutto tranne che magica – c’è voluta una manciata di secoli di monoteismo per gettare acqua sul Sacro, in attesa che sorgessero dal nulla per invenzione umana (a proposito di invenzione, si consiglia vivamente la lettura sulla Jewish Encyclopedia della voce riguardante Moshe Ben Shem-Ṭob) sia la kabbalah che la magia salomonica.
Perché di questo si tratta: tutti i sigilli islandesi, e in particolare Ægishjalmr e Vegvísir, sono una derivazione dalla magia salomonica, senza nemmeno troppi filtri. Il grimorio bizantino medievale Hygromanteia (XIV-XV secolo, detto anche Trattato Magico di Salomone), la Clavis Salomonis, la Clavicula Salomonis e tutti gli altri grimori medievali, rinascimentali fino a quelli vittoriani, sorti dopo l’invenzione della kabbalah (XIV secolo circa) come diretta ed esplicita emanazione di questa, traboccano di sigilli simili o talvolta identici – letteralmente identici, nel caso del Ægishjalmr nel Hygromanteia – a quelli dei grimori islandesi.
I testi elencati e tutti gli altri sono facilmente scaricabili in vari formati, essendo esenti da diritti: se siete curiosi, cercateli e studiateli. Siate però pronti a scoprire cosa realmente vi siete tatuati. Mai è stato così necessario andare a ritroso per riscoprire il nostro Sacro, i nostri Miti e i nostri Riti.
Francesco Perizzolo