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Il Duce e il Professore: Giovanni Gentile e Benito Mussolini

by Adriano Scianca
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giovanni gentile

Pubblichiamo di seguito la prefazione di Adriano Scianca al volume di Giovanni Gentile, Origini e dottrina del fascismo, appena ripubblicato per i tipi di Passaggio al Bosco (pp. 113, euro 12).

Roma, 13 giu – Che Giovanni Gentile sia stato davvero fascista è una cosa che hanno sempre faticato in molti a credere. Sia tra i fascisti che tra gli antifascisti. Non lo credettero questi ultimi, soprattutto nel dopoguerra, quando molti gentiliani passarono armi e bagagli al Partito comunista e sentirono la necessità di giustificarsi retrodatando la propria coerenza ideologica. Si escogitò allora da più parti la vera e propria mistificazione storiografica della cultura nel fascismo, scesa a patti col fascismo, ma mai veramente fascista, ché quel regime, di ideologicamente originale, aveva prodotto solo vuoti slogan. Insomma: se fu cultura, non fu fascista, se fu fascista, non fu cultura, secondo una formula ideologica infausta che per troppi anni ha inquinato il dibattito sul Ventennio.

Un’eredità discussa

Ma al Gentile fascista autentico non credettero nemmeno gli squadristi, le camicie nere della prima ora, diffidenti verso quel professore schieratosi solo a cose fatte. Non lo credettero gli ambienti clericofascisti, che avevano vecchi conti da regolare con l’attualismo e che, del resto, furono confortati dalla decisione vaticana di mettere all’indice i libri di Gentile (e Croce) avvenuta nel 1934, né quelli intransigenti. Non lo credettero gli Evola, i Ricci, gli Orestano, i Bodrero, i Soffici, i Malaparte, gli Interlandi, i Carli. Non lo credettero i giovani, a cui il professore siciliano appariva come un barone onnipotente e soffocante, le cui intuizioni speculative maggiori erano ormai lontane nel tempo e di cui restava solo una sorta di holding che occupava gran parte dell’industria culturale italiana dell’epoca.

Giovanni Gentile nella cultura fascista

Al fascismo di Gentile credette invece fermamente, e non fu cosa da poco, Benito Mussolini. All’inizio anche per convenienza, va detto: il filosofo siciliano era il grande nome da poter spendere contro coloro che accusavano il fascismo di incoltura, il fiore all’occhiello da poter vantare sulla scena nazionale e internazionale. La sua candidatura a ministro era stata sostenuta da una delle figure più brillanti e originali dell’intellighenzia in camicia nera, Camillo Pellizzi, e dal pedagogista gentiliano Ernesto Codignola. Anche un vulcanico teorico del sindacalismo nazionale come Agostino Lanzillo, amico personale di George Sorel, perorò la causa gentiliana. Il capo del fascismo accettò di buon grado, anche se l’attualismo sembra essere entrato tardi nell’eclettico corpus ideologico mussoliniano. Il Duce, a dirla tutta, fu per molto tempo più crociano che gentiliano, come notò acutamente Marcello Veneziani[1], anche se Mussolini, per dispetto a don Benedetto, si vantò di averlo sempre snobbato: «Ora vi farò una confessione che vi riempirà l’animo di raccapriccio. Sono pensoso prima di farla. Non ho mai letto una pagina di Benedetto Croce»[2], disse una volta di fronte alle camicie nere osannanti. Non era vero.

E Gentile? Quand’è che Mussolini si confrontò per la prima volta con l’attualismo? Negli scritti e nei discorsi precedenti l’avvento del fascismo, Gentile è pressoché assente, salvo una fugace comparsa in un articolo del 1913. Secondo A. James Gregor, fu tra la fine del 1919 e la Marcia su Roma che Mussolini andò incontro a una profonda revisione ideologica e filosofica. «Probabilmente, proprio durante questa fase di elaborazione critico-dottrinaria, Mussolini lesse, forse per la prima volta, alcune opere di Giovanni Gentile»[3], scrive lo storico americano, anche se qualche capitolo dopo si corregge: «È molto probabile che Mussolini avesse letto qualcosa di Gentile sin dal 1908»[4]. Di sicuro il pensiero di Gentile era noto e discusso fra i sindacalisti rivoluzionari e nel gruppo de La Voce. Il filosofo era stato un interventista e aveva collaborato alle riviste dei nazionalisti. Era quindi davvero improbabile che un individuo come Mussolini, sempre pronto a cogliere nell’aria una tendenza intellettuale nuova, non avesse comunque un’idea di massima delle tesi neo-idealiste. Fu in ogni caso solo nel 1921 che Mussolini fece sua la tesi dello «Stato etico»[5] e compì esplicita professione di fede nel neoidealismo.

Un sodalizio politico-culturale

Dopo l’ingresso di Gentile nel governo presieduto da Mussolini, fra i due nacque un sincero rapporto di stima. Il 12 marzo 1923, Gentile dedicò a Mussolini una sua antologia di scritti, I profeti del Risorgimento italiano, definendolo «italiano di razza degno di ascoltare la voce dei profeti della nuova Italia». Del resto, ha notato lo storico Emilio Gentile, «il tipo dell’italiano nuovo immaginato da Gentile era Mussolini. […] Nella concezione fascista di Gentile, Mussolini acquistava un ruolo di grande significato: il duce era l’uomo, la personalità “cosmico-storica” in cui si realizzava lo spirito del mondo: e in Mussolini era espressa l’essenza del fascismo. Il duce assumeva un significato determinante e fondamentale perché egli era “una dottrina vivente”; attraverso la sua azione l’idea si formulava e si trasformava in forza sociale e politica, in passione di massa e opera di governo»[6].

Mussolini, dal canto suo, ne difese a spada tratta la riforma della scuola, definendola «la più fascista delle riforme» (ma, in questo senso, le critiche di molte camicie nere non erano peregrine e probabilmente la vera educazione fascista fu quella tratteggiata nella Carta della scuola di Bottai). E, anche negli anni successivi, mantenne con il pensatore un rapporto improntato a grande rispetto. Ciò non impedì a Gentile di avere legami altalenanti col Regime in generale. Dopo il delitto Matteotti, Gentile si dimise da ministro senza prendere le distanze dal fascismo e da Mussolini.

Dal manifesto alla Rsi

Non di meno, a fine marzo 1925 Gentile elaborò il Manifesto degli intellettuali fascisti agli intellettuali di tutte le nazioni e fu nominato presidente dell’Istituto nazionale fascista di cultura, inaugurato il 19 dicembre di quell’anno. Ma già a febbraio del 1925 fu nominato direttore scientifico dell’Enciclopedia italiana, che peraltro gli valse nuove critiche per l’utilizzo di collaboratori di ambigua o scarsa fede fascista. Il 30 marzo 1942 morì a Milano il figlio Giovanni, docente di fisica. Al telegramma di Mussolini, Gentile rispose: «Mi parlò di Voi sul letto di morte; e la parola era alta perché gli veniva dal cuore, e sonava certezza della vittoria e dell’avvenire del paese». Il 17 novembre 1943 Gentile incontrò Mussolini a Gardone Riviera, sul lago di Garda, e accettò la presidenza dell’Accademia d’Italia. Aderendo alla Rsi firmò di fatto la sua condanna a morte, eseguita da un commando gappista il 15 aprile 1944. Soltanto dopo la guerra uscirà, postumo, Genesi e struttura della società, uno dei suoi libri più originali e interessanti, in cui peraltro alcuni aspetti del suo pensiero contestati negli anni da alcuni fascisti, come ad esempio una concezione astratta dell’atto puro e uno sbilanciamento delle sue visioni pedagogiche sugli studi umanistici, verranno superate nella visione dell’umanesimo del lavoro.

Il fascismo di Giovanni Gentile

Considerato spesso il propugnatore di un fascismo «moderato» o «liberale», Gentile aveva aderito al Regime vedendovi una continuità di fondo con l’esperienza risorgimentale e con la Grande guerra. Il suo «liberalismo» si basava peraltro su una sorta di gioco di prestigio lessicale, che lo portava a distinguere un vecchio liberalismo, in cui l’individuo aveva rivendicato la propria libertà contro lo Stato, da uno nuovo, in cui l’individuo la rivendicava nello Stato e attraverso lo Stato. Spezzato il dualismo tra singolo e collettività organizzata, trovate le origini del vivere associato in interiore homine, Gentile ne deduceva che ormai l’individuo potesse considerarsi tanto più forte, quanto lo Stato stesso era potente. Il che, va detto, dà luogo a una ben strana forma di «liberalismo». Lo stesso dicasi per il suo proverbiale moderatismo, che altro non era se non rifiuto di qualsiasi forma di conflittualità interna allo Stato, che gradualmente doveva farsi totalità onnicomprensiva.

Lo Stato etico

Quel «liberalismo» e quel «moderatismo» celano quindi in verità un pensiero profondamente rivoluzionario. L’attualismo, del resto, si basa sul concetto del pensiero come atto puro, cioè come pensiero pensante che non è, ma diviene, che non è un fatto ma un fare. L’atto con cui lo spirito crea se stesso e incessantemente si sviluppa è l’autoctisi (dal greco αὐτός, «stesso», e κτίσις, che negli scrittori ecclesiastici è il nome tecnico della creazione divina), che è appunto un’autocreazione. Da qui anche la visione, come ha scritto Valerio Benedetti, di uno Stato «che liberamente crea la nazione; che coincide con la volontà del popolo del quale è l’educatore. Uno Stato che vive nell’uomo: che – al contrario di tutte le varie e astratte teorie nazionaliste, assolutiste, liberali, socialiste, democratiche, ecc. – non è inter homines, bensì in interiore homine. Uno Stato, cioè, che non è più (solo) una burocrazia, ma piuttosto carne e sangue della nazione. Uno Stato, quindi, che non è, ma che, invece, costantemente si fa nella coscienza dell’uomo e del cittadino. Uno Stato, dunque, dinamico e progressivo che – ad onta della sua stessa etimologia – non sta, ma che sempre diviene in una “eterna rivoluzione”»[7].

Tra i pochi ad aver colto questi aspetti e ad aver considerato non episodico, ma addirittura necessario l’incontro tra Mussolini e Gentile è stato Augusto Del Noce, che sintetizzò lapidariamente: «All’irrazionalizzazione del socialismo rivoluzionario operata da Mussolini, corrisponde l’irrazionalizzazione dell’hegelismo compiuta da Gentile»[8]. Più centrato sulla problematica storiografica, Emilio Gentile ha riconosciuto che da parte del filosofo «non vi fu alcun ingenuo travisamento o illusione sulla natura reale del fascismo. Egli riconosceva il fascismo per quel che era e, nonostante ciò, lo giustificava in virtù della sua concezione attualista della politica, secondo cui la realtà non è il determinato, il particolare, il fatto, ma è attività volta al futuro, processo di attuazione di un’idealità universale mai esauribile in una particolare situazione storica»[9]. Il Duce e il Professore, insomma, si incontrarono sul comune sentiero della rivoluzione degli italiani. Un sentiero che prima di essere lastricato di sangue segnò il percorso in cui si incanalarono tutti gli entusiasmi di una nazione.

Adriano Scianca


[1] Marcello Veneziani, La rivoluzione conservatrice in Italia, Sugarco, Milano 2012, pp. 188-189.

[2] “Intransigenza assoluta”, in Il Popolo d’Italia, n° 148, 23 giugno 1925, in Opera omnia, vol. XXI, pp. 358-359

[3] James Gregor, L’ideologia del fascismo, Il Borghese, Milano 1974, p. 152

[4] Ibid., p. 195.

[5] “Il programma fascista”, Il Popolo d’Italia, 8, 9, 10 novembre 1921, in Opera omnia, vol. XVII, p. 220.

[6] Emilio Gentile, Le origini dell’ideologia fascista 1918-1925, Il Mulino, Bologna 1996, p. 435.

[7] Valerio Benedetti, Riprendersi Giovanni Gentile, Aga, Milano 2014, p. 74.

[8] Augusto Del Noce, Il problema dell’ateismo, Il Mulino, Bologna 2010, p. 155.

[9] Emilio Gentile, Le origini dell’ideologia fascista, op. cit., p. 425.

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